Ancora Francesco al cinema, di Franco Cardini
C’era ancora bisogno di una nuova versione cinematografica della storia di Francesco e dei suoi compagni? Forse no: ma in fondo, chissà; è che il cinema ha bisogno di lui
C’era ancora bisogno di una nuova versione cinematografica della storia di Francesco e dei suoi compagni? Forse no: ma in fondo, chissà, non è che Francesco abbia bisogno del cinema; è che il cinema ha bisogno di lui. Specie in questa nostra epoca. Pensiamoci: le preoccupazioni per il crescere esponenziale della povertà, per le minacce di inquinamento, di esaurimento delle risorse e di guerre dilaganti cui è esposto il pianeta, per la generale crisi morale, spirituale e religiosa alla quale siamo tutti esposti, sta facendo proliferare le comunità nelle quali si cerca un senso “nuovo” da dare alla vita; e magari sono in tanti a chiedersi se questo senso lo avessimo già, solo che lo abbiamo perduto.
Nel corso del cineforum di Castiglione del Lago - Storie di storia. L’arte della narrazione. Letteratura, cinema e teatro a confronto - con alcuni amici, tra cui molti studenti, mi è capitato di assistere alla proiezione del film dei due registi francesi Renaud Fely e Arnaud Louvet L’ami. François d’Assise et ses frères, al quale è stato dato in italiano il suggestivo ma in fondo sviante titolo Il sogno di Francesco. La pellicola gira per l’Italia, ma non sta avendo un gran successo: in fondo è un prodotto d’élite, che – a dirla con Miela Fagiolo d’Attilia, che se n’è occupata sul numero di novembre della rivista “Popoli e Missione” – consiste in “una coproduzione franco-italo-belga, girata in poco più di tre settimane con una troupe cosmopolita e un budget contenuto per essere nello spirito del protagonista. Nella cornice degli straordinari paesaggi umbri, la gioia di Francesco […] ci porta nei boschi e tra i fiumi intorno ad Assisi”.
È un film di pregio. Eccellenti i protagonisti (Francesco è Elio Germano, Chiara una commovente Alba Rohrwacher, Elia un forte Jeremie Renier), belli i paesaggi e gli ambienti rustici, nitida la fotografia, forse non proprio “filologici” ma ripensati in modo efficace i primi ruvidi e non ancora “formalizzati” sai dei pauperes penitentes della fraternitas assisana.
La storia non c’è. Se ne intravede qua e là qualche brandello, confuso e distorto: le vicende della Regola, le difficoltà con la gerarchia della Chiesa, le stimmate. Chi conosce un po’ le vicende di Francesco e dei suoi primi compagni – le medesime or ora rievocate nel bellissimo Francesco. La storia negata di Chiara Mercuri (Laterza) – non ci si ritrova e, dovendo scartare l’ipotesi del futile errore, alla fine può sentirsi irritato per la continua distorsione dei fatti. Insomma, non siamo davanti a un “film storico”. I due coregisti ci avevano in effetti avvertiti di ciò, definendo il loro “un film con Francesco piuttosto che su Francesco”.
In realtà, si tratta della ricostruzione “intimizzata” non delle vicende della primitiva fraternitas, bensì del suo intimo dramma. Il vero protagonista della vicenda è Elia, che rispetto all’ineffabilità di Francesco, è il personaggio più “moderno”, più vicino a noi: nei suoi difetti più che non nei suoi pregi, ma anche nella sua umanità. Francesco resta perfetto, sublime, ma irraggiungibile. Elia, lo comprendiamo meglio: è arrivato ad abbracciare Sorella Povertà dopo austeri studi giuridici, è sinceramente innamorato della sua vocazione e del suo Amico-Maestro, ma dinanzi alla sua testimonianza tutta fondata sull’Essere non sa resistere a replicare secondo i due tipici parametri che hanno fondato l’Occidente moderno: l’Avere e il Fare. Perché si deve lavorare senza chiederne la giusta mercede e senza nulla possedere, se il coltivare un campo “nostro” potrebbe produrre frutti che, quelli sì, potrebbero venir donati ai poveri?
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