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Crociato senza armi: Francesco e la Terra Santa

Un intelligente libro di Antonio Musarra

Francesco d’Assisi, la pace, le armi; la crociata e le crociate, snodo critico della società medievale. Temi caldi, indubbiamente, tanto il primo che il secondo, sui quali s’è scritto a non finire, non di rado sotto la pressione dell’ideologia. Il discorso si fa ancora più delicato quando i due temi finiscono per incrociarsi, come nel volume di Antonio Musarra, Francesco, i Minori e la Terrasanta (Mon+sagrati, Lucca, Edizioni La Vela, 2020, pagine 380, euro 20). Formatosi alla scuola di un maestro riconosciuto, qual è Franco Cardini, l’ancor giovane studioso ha già prodotto — sull’argomento — una serie di monografie d’indubbio spessore. Nel presente volume egli conferma le sue qualità, affrontando con competenza e chia rezza un tema dalle molte sfaccettature nel quale si cimenta  ripercorrendo oltre un secolo di storia e analizzando con perizia una gran quantità di questioni, sempre con piena padronanza della relativa storiografia.

Musarra offre anzitutto il quadro di riferimento, delineando i significati diversi che il termine “crociata” aveva ormai assunto nel XIII secolo, la sua predicazione, le ingenti energie che richiese, l’ampio dibattito che intorno a essa venne sviluppandosi, il ruolo che — in tale dibattito — ebbero i Minori. Un quadro necessario e non si può che essere d’accordo con l’autore quando afferma che «l’incomprensione di buona parte della storiografia odierna deriva dal fatto di considerare la crociata unicamente come figlia di un’ideologia guerresca — qual essa effettivamente era, beninteso — e non anche penitenziale». Rileva quindi la totale assenza (almeno per quanto emerge dai suoi scritti) di qualsiasi rifiuto, in Francesco, dell’idea di crociata e perciò «suggerisce di non ricusare a priori la possibilità che l’Assisiate vi partecipasse alla stregua di qualsiasi altro pauper o puer: senz’armi».

Musarra prende così in esame le fonti relative all’iincontro di Francesco con il sultano, che — accogliendo il suggerimento di Giuseppe Mandalà (suggerimento valido) — colloca nella tenda adibita alle pubbliche discussioni: un incontro che, contrariamente a quanto si è a lungo creduto, poca o nulla risonanza ebbe in ambito mussulmano e molta invece nell’Occidente cristiano. A dispetto delle grosse energie impiegate, all’inizio del XIII secolo, dopo le riconquiste operate da Saladino, l’Oltre mare latino si era ridotto ormai a una striscia di terra compresa grosso modo fra Tiro e Giaffa. Nondimeno, ancor prima che Francesco vi sbarcasse, i Minori erano giunti anche lì; era stato frate Elia a guidare il loro primo drappello e fu ancora lui — secondo la testimonianza di Giordano da Giano — a conquistare all’ideale minoritico Cesario da Spira e forse ebbe ugualmente un ruolo nell’attrarre tra i frati alcuni chierici che erano sotto la giurisdizione di Jacques de Vitry, dal 1216 vescovo di San Giovanni d’Acri. Si trattava delle prime forme di una presenza destinata a durare, nonostante la situazione del Regno di Gerusalemme diventasse via via sempre più fragile. Toccò poi al primo Papa francescano della storia, Niccolò IV (1288-1292), che pure dopo la caduta di Tripoli nel 1289 aveva tentato di rilanciare la crociata, assistere nel 1291 anche alla capitolazione di Acri, ultimo baluardo della presenza latina in Oltremare.

L’impressione suscitata in Occidente da quella disfatta fu enorme, dando adito a un rimpallo di responsabilità e a quella che Cardini ha definito con un’espressione efficace — opportunamente ripresa da Mu- sarra — una «crociata d’inchiostro», alla quale i francescani diedero un significativo apporto con l’elaborazione di tutta una serie di piani e strategie tese al recupero delle posizioni perdute. A cambiare pian piano il quadro, però, oltre le strategie del sultano, furono le esigenze del commercio — che le grandi città marinare italiane non interruppero nonostante i divieti papali — e l’affacciarsi del pericolo turco. Fu in questo quadro sostanzialmente mutato che — al di là del valore da assegnare a un noto documento che sarebbe stato emanato dalla cancelleria mamelucca nel 1309, tale però da suscitare dubbi circa la sua autenticità — vennero costituendosi le premesse per un ritorno stabile dei “frati della corda” nella terra abitata da Gesù, un ritorno reso possibile non dallo scintillio delle armi, ma delle monete, non dalla potenza militare, ma dalla diplomazia, e favorito dall’app oggio degli Angioini di Napoli, vale a dire re Roberto e sua moglie Sancia di Maiorca: fu così che nel 1333 frate Rogerius Garini poté ottenere dal sultano che una comunità di frati potesse stanziarsi al Cenacolo e che frati potessero dimorare e officiare al Sepolcro.

Giunti alla fine del tratto di strada che Musarra ci fa percorrere, vorrei riprendere due questioni che ogni libro che affronta l’argomento inevitabilmente solleva. Anzitutto, perché Francesco si recò in partibus infidelium? Tutte le risposte, finora, sono state tentate. Sappiamo però — grazie alla testimonianza dei suoi Compagni — che conclusosi il Capitolo «nel quale i frati per la prima volta furono inviati in alcune terre d’O ltremare», Francesco entrò in discussione con se stesso perché, dopo aver mandato i frati «in regioni lontane a sopportare travagli e umiliazioni, fame e altre innumerevoli avversità», gli sembrava giusto che anch’egli si recasse «in qualche lontana provincia», così da dar loro l’esempio per aiutare i fratelli ad «affrontare più pazientemente necessità e tribolazioni».

Francesco avrebbe voluto allora recarsi in Francia, ma ne fu dissuaso dal cardinale Ugo di Ostia (cfr. Compilatio Assisiensis 108). Molto probabilmente, fu dunque per lo stesso motivo che due anni dopo prese la via dell’O riente. Inoltre, se non si può «affermare che Francesco fosse contrario alla crociata», si può però dire che quell’esp erienza cambiò senz’altro il suo approccio al problema; molto probabilmente, al suo ritorno, Francesco non aveva più le me desime idee sulla crociata che aveva in precedenza: non si spiegherebbero, altrimenti, le affermazioni presenti nel capitolo XVI (5-7) della Regola non bollata, che è arduo supporre siano state scritte prima di quella esperienza e costituiscono invece l’esito al quale egli giunse dopo il viaggio nelle terre d’O ltremare. In conclusione, quello di Musarra è un libro attento e documentato; un lavoro bello, ma soprattutto intelligente, capace di far pensare e discutere. (Osservatore Romano)

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