Donne che fanno coscienza del mondo
Ho scorto tempo fa, tra gli scaffali di un’antica libreria del centro, un libro di recente pubblicazione, Le donne aprono il cielo e accompagnato dall’immagine di una donna con in mano un nugolo di farfalle colorate. Appena finito di sfogliare le pagine centrali del libro, ho rivolto a me, incuriosita, il retro della copertina su cui v’è scritto: “È a noi donne che spetta il compito di fare coscienza del mondo. E di curarlo, perché sappiamo farlo da sempre. Perché puliamo il cordone spezzato, la piaga dei vecchi, il muco dei figli, l’orina dei gatti e le ferite in battaglia”.
Mentre riflettevo sul senso di queste parole, ho pensato lì per lì a tutte quelle donne che hanno cambiato, e stanno cambiando, la nostra visione della storia e dell’umanità. Per un attimo ho pensato a Chiara d’Assisi, il cui coraggio, secondo la derivazione latina di cor, ha fatto sì che divenisse una santa innamorata di tutto cuore degli ideali di libertà, di uguaglianza e, sopra tutto, di rinuncia, gli stessi in cui credeva fermamente San Francesco.
Guardando al presente, ho pensato a un’altra grande figura femminile, di cui ho già detto in queste pagine, impegnata a divulgare, specie tra i giovani, nelle scuole, messaggi di un certo rilievo antropologico. Mi riferisco a Liliana Segre, una donna che ha raccontato all’Italia intera il dramma delle deportazioni vissuto in prima persona, al fine di condividere con la gente comune quelle esperienze che hanno cambiato per sempre il suo destino.
Tra le numerose interviste rilasciate da Liliana, ve n’è una, in particolare, che suscita in ognuno un senso di vergogna rispetto ad una umanità che in quegli anni andava perdendo qualsiasi cognizione di pietà per il dolore altrui. Liliana in questa intervista ricorda il giorno in cui, a causa di una forte infezione, subì le umilianti offese di un’infermiera “oscena” – come ha osato definire – che invece di prendersi cura di lei recise in modo brutale la profonda ferita che solcava una parte delicata del suo corpo scheletrito. Con il suo consueto garbo, capace di ingentilire persino certi elementi raccapriccianti del racconto, Liliana rivive quello che fu uno dei momenti più tristi della sua vita, quando la sua anima sprofondò in uno stato di solitudine e disperazione.
Almeno fino a che al rientro nella baracca lurida dov’ella alloggiava, la mano di una prigioniera tesa ad offrirle una sottile fettina di carota cruda (che Liliana poco dopo metterà sotto i suoi denti assaporandone la piacevole dolcezza) anestetizzò il suo immenso dolore. Fu quella la prima volta che Liliana tornò a dire grazie. Ringraziò per un gesto che, per chi non ha nulla, significa “ho pietà di te”. Perché quando non si ha nulla, dice Liliana, eppure si rinuncia anche a quel poco che si ha, si dà prova di un animo capace di sentire, sulla propria pelle, i dolori del prossimo.
Questo è ciò che ha voluto raccontarci Liliana. Questo è uno dei principi fondanti della dottrina francescana: San Francesco, l’uomo della misericordia, ha voluto insegnare a tutti gli uomini che l’amore e il rispetto per qualsiasi creatura vivente non prescindono dall’ingenita volontà di partecipare in modo vero e commosso al dolore dell’altro. Ecco l’alto valore di pietà.
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