Elogio del papà di San Francesco
Mi piace san Francesco, ma mi piace anche il suo papà, ragion per cui, se avessi potuto, come il ministro
Passera, partecipare al convegno svoltosi ieri ad Assisi sull'insegnamento di quel grande santo in tema di
lavoro, mestieri ed economia, non sarei riuscito a evitare di porre il problema del perché a nessuno,
riflettendo sulla storia del poverello di Assisi, è mai capitato di dirsi: «L'avessi avuto anch'io un babbo ricco e
buono come il suo!». E di formulare il sospetto che don Pietro Bernardone possa essere stato, a suo modo,
un santo per certi aspetti persino più umile del suo figliolo. E di accennare ai motivi per i quali la sobria figura
di quell'operoso mercante, che certamente fu anche un padre affettuoso e munifico, sia stata completamente
oscurata dalla fama di Francesco.
A giustificare questi interrogativi basta il celebre episodio dello spogliarello di Francesco in piazza. Che la
leggenda tramanda per dimostrare che messer Pietro fu un padre così esecrabile da meritarsi ampiamente
l'affronto che il suo figliolo gli fece sfilandosi davanti a lui, e ai suoi cortesissimi amici, tutti bravi e stimati
assisani, i ricchi panni che fino a quel momento, proprio grazie alla paghetta di papà, aveva potuto sfoggiare,
vale a dire improvvisando coram populo un vanitoso strip tease a fini di pauperistica edificazione e di paterna
mortificazione.
Per apprezzare questa famosa scenetta - un pubblico sputacchiamento del proprio genitore - conviene
ricordare che Francesco aveva tentato, fino a quel momento, di diventare il moscardino più charming della
sua città. Un obbiettivo, questo, che lo aveva indotto a gareggiare, sperperando i quattrini paterni, con la più
scelta gioventù assisana in chiassose e dispendiose spacconate. Il che, tuttavia, non gli aveva procurato il
vagheggiato alloro di principe della locale jeunesse dorée.
A questo ambito riconoscimento ostava infatti la
sua appartenenza a un ceto che un grande poeta non privo di snobistici ribrezzi avrebbe di lì a poco definito
"la gente nova e i sùbiti guadagni". Sicché tutto lascia supporre che fu proprio per rivalersi degli smacchi
subiti producendosi sulla scena del Lusso che egli decise di accingersi a primeggiare su quella della Povertà
e dell'Ascesi travestendosi da umile straccione.
Da umile straccione ma anche e soprattutto da leader carismatico. Giacché al gesto clamoroso del
denudamento coram populo seguì sùbito, com'è arcinoto, il reclutamento di un gregge di pecorelle disposte a
votarsi con lui a un'esistenza basata su tre pratiche: la questua, la preghiera e una predicazione centrata
sull'elogio di Sorella Povertà.
Trovata davvero geniale, per la quale è giusto che sia tanto ammirato ancora oggi. Ma ancor più ammirato
dovrebb'essere il suo babbo. Giacché furono i tipi come lui, con il loro culto del lavoro e degli affari, a fare
dell'umile Italia, fra la fine del XII e l'inizio del XIII secolo, una contrada abbastanza prospera da potersi
persino concedere il lusso di tollerare che uno sciame di fraticelli sedotti e guidati da un giovane snob
scopertosi avido di gloria celeste solo dopo aver tentato invano la conquista di quella terrestre se ne andasse
in giro per colli, campi, cascine e borghi a chiedere la carità e a lodare la povertà senza dover temere di
essere inseguiti e bastonati, un giorno sì e l'altro pure, da turbe di affamati furibondi.
Onore dunque a Francesco, purissima espressione del genio italico nel ramo Fede & Parassitismo. Ma onore
anche a Pietro Bernardone, grande italiano che dopo otto secoli e rotti di disprezzo francescano sarebbe
ormai doveroso riabilitare.
Ma questo è un còmpito che dovrebb'essere svolto, a titolo riparatorio, proprio dal
suo figliolo. Che per onorare la sua santità non dovrebbe più a lungo esitare a rivelare ai suoi alunni che se
quei materialoni come il suo papà, con il loro bernoccolo degli affari, non fossero riusciti ad arricchirsi, e ad
arricchire le loro contrade, diffondendovi un po' di volgarissimo benessere, i suoi umilissimi seguaci non
avrebbero certo potuto togliersi lo sfizio, come fece lui, di sbeffeggiare e mandare al diavolo i ric coni del
tempo per mettersi a campare di elemosine.(Il Tempo)
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