Famiglie missionarie a km0: il volto di una Chiesa accogliente
La missione nel cuore
Le famiglie missionarie a Km0 sono il volto di una Chiesa accogliente e attenta alle relazioni. Eugenio Di Giovine ci racconta l’esperienza della sua famiglia.
Eugenio, com’è nata l’esperienza delle famiglie missionarie a km0?
Io, mia moglie Elisabetta e i miei 5 figli “nasciamo” come famiglia missionaria: dal 2006 al 2009 siamo stati inviati dall’OFS Italia e dalla Diocesi di Milano in Venezuela, eravamo laici fidei donum. In genere l’idea dei laici in missione è legata ad una professione, come educatori, medici, geometri, mentre a noi il vescovo di Guanare (Venezuela) aveva proposto un incarico di animazione pastorale in una comunità che non aveva più sacerdoti residenti, affidandoci il quartiere del Barrio “La importancia” dove vivevano circa 18 mila persone. Rientrati in Italia ci siamo chiesti, con altre famiglie ritornate dalla missione, se e come questo tipo di servizio pastorale vissuto in sud America potesse essere valorizzato anche nella nostra Diocesi.
Il card. Dionigi Tettamanzi, vescovo in quegli anni, nell’omelia della messa crismale del 2008 aveva fatto un cenno in tal senso, consapevole che ormai, come nelle missioni anche la Chiesa di Milano non poteva più garantire in ogni parrocchia la presenza di un presbitero residente o di una comunità di consacrati. Abbiamo dunque capito che in gioco c’era qualcosa di importante a cui dare una risposta. E così ci siamo messi a disposizione del vescovo (nel frattempo era subentrato il card. Angelo Scola) per un discernimento. In questo contesto si comprendeva che la famiglia era il soggetto ecclesiale, missionaria in quanto c’è un invio da parte della Chiesa a cui si aggiunse, quasi per scherzo, “a km0” perché per questa missione non era necessario attraversare l’oceano e i continenti, ma “si giocava” in casa, all’interno della stessa diocesi. Ora il nome sta diventando quasi ufficiale, e ci distingue dalle famiglie missionarie fidei donum. Al momento ci sono circa 32 famiglie che hanno già ricevuto un mandato ecclesiale e svolgono questo servizio in una comunità parrocchiale.
Un mandato che nasce da un’esigenza di supplenza?
Non vi è dubbio che la riflessione parte dalla percezione di una carenza di “personale”, mancano presbiteri, e si era cercato di capire come risolverlo. Grazie a Mons. Luca Bressan vicario episcopale e teologo pastorale che sta accompagnando l’esperienza, stiamo intuendo che questa esperienza è molto di più che un “essere al posto di”, ma “un essere insieme”. Ci sono famiglie che abitano in una canonica dove non c’è più il prete, ma sempre operano sul territorio in corresponsabilità con il parroco, gli altri presbiteri e i diaconi; altre vivono vicino ai preti, condividendo alcuni momenti di fraternità, pregando e mangiando insieme. E così le due vocazioni si completano a vicenda.
Cos’è cambiato con l’arrivo della vostra famiglia in parrocchia?
Abbiamo scoperto strada facendo e lavorando insieme, che la domanda “alta”, quella su Dio, sui valori, non si è estinta, anzi, è rimasta profondamente legata al cuore dell’uomo. Quello che è sparito è l’automatismo di fare questa domanda quando emerge: di fronte a un lutto, un disagio, una malattia ma anche di una gioia, di solito si andava dal prete o dalla suora. Nel contesto attuale, anche per la grande mobilità, si sono persi i riferimenti confidenziali con i preti. La presenza in parrocchia di una famiglia può annullare la barriera reverenziale perché è uguale alla tua, la vedi tutti i giorni dal pediatra, davanti alla scuola, al supermercato, la senti vicina.
Nello stesso tempo sai che è “Chiesa”, perché la vedi in parrocchia ed esercita questo ministero. Il risultato che abbiamo sperimentato è che le persone vengono da noi e fanno le domande che prima facevano ai preti o alle suore. Ma noi non prendiamo “il posto di”, ma siamo “con e insieme” al parroco. Questa nostra presenza ha funzionato e ha cambiato abitudini e dinamiche della comunità. Dopo pochi mesi dal nostro arrivo la comunità si è rivitalizzata, le messe sono molto partecipate, il prete viene per celebrare l'eucaristia. Quello delle famiglie missionarie a Km0 è un protagonismo diverso che genera nuovi legami con altre famiglie a partire dai contatti e dai contesti quotidiani.
Qual era il vostro servizio in parrocchia?
Ci teniamo subito a dire che è un’esperienza totalmente gratuita. Ogni famiglia si accolla le spese della canonica e non pesa un centesimo sulla comunità. Ciascuna famiglia missionaria a Km0 vive del proprio lavoro. Per non essere confusi come sacristi o custodi della chiesa non abbiamo compiti diretti legati al luogo di culto. Ci siamo concentrati sulle relazioni. Abbiamo iniziato a proporre delle attività non partendo da programmi prestabiliti, ma adottando uno stile missionario. Non facciamo tutto noi, ma coinvolgiamo le persone di modo che le opere restano e si auto-mantengono anche se tu vai via. Per esempio, nel territorio della nostra parrocchia ci sono molti anziani e famiglie giovani. Così ha avuto molto successo l’oratorio estivo per gli anziani, molti dei quali non uscivano più di casa. Abbiamo letto questo bisogno, ci abbiamo messo pensiero, cuore e presenza e i volontari sono diventati i 60enni. La nostra porta è sempre aperta ai giovani, alle persone in difficoltà che vengono a chiedere un consiglio.
Con la Caritas cittadina abbiamo organizzato anche attività ludiche “interreligiose”. L’abbiamo fatto perché a scuola con i nostri figli c’erano bambini di tutte le nazionalità e religioni, ma non erano previsti momenti di incontro al di fuori di quelli formali e scolastici. Abbiamo detto: perché non fare un momento ludico ma negli ambienti dell’oratorio per far capire che le nostre comunità sono accoglienti? Alla fine si è trasformato quasi un incontro “interreligioso”, dove preparando una merenda per i figli, mamme e papà si incontravano e si confrontavano. Nel nostro tipo di missione non c’è un mansionario definito, né orari specifici. Abbiamo stimolato la comunità al protagonismo, perché poi andando via noi le cose continuassero. Adesso stiamo accompagnando nell’inserimento la nuova famiglia missionaria a Km 0 che è venuta dopo di noi.
Che cosa la vostra famiglia ha ricevuto da questa esperienza?
Ci sembra che oggi ci sia un narcisismo generalizzato, una tentazione individualista che porta a chiudersi in sé stessi e ad essere autosufficienti. Noi abbiamo avuto la prova che, come dice il Papa, nessuno si salva da solo. Ci siamo sempre affidati ad altri con le nostre fragilità: quando siamo partiti per il Venezuela Elisabetta era incinta di 6 mesi e Teresa ancora gattonava, eravamo fragilissimi. Molti ci davano una pacca sulla spalla e preoccupati ci dicevano ma “chi si prenderà cura di voi”? Nel nostro servizio missionario ci siamo accorti che è più importante esserci che fare. Abbiamo sperimentato che se hai un’idea intelligente, quando ti confronti con qualcuno ti accorgi che c’è qualcuno più intelligente di te, capace di uno sguardo più profondo. Abbiamo appreso la bellezza della fraternità, se c’è rispetto, se ti accogli, se ti ascolti, ne esci edificato. Il guadagno che abbiamo ricevuto speriamo ritorni anche sui figli: gli puoi spiegare il vangelo a parole, ma crediamo sia differente se cerchi di viverlo giornalmente. Una cosa bella che abbiamo imparato è il dono dei fratelli, anche quelli molesti, anche quelli che tutti considerano strani, sono tutti un dono. Senza di loro non saremmo quello che siamo.
Oggi si punta molto sulla famiglia per rilanciare la missione della Chiesa.
C’è il rischio di idealizzare una vocazione e di proiettarvi troppi idealismi. La famiglia è un dono per la Chiesa e l’aiuta a fare un grande bagno di realismo. Qualche famiglia impegnata nell’evangelizzazione potrebbe aiutare a ripensare le proposte pastorali a partire dalle esigenze reali della vita familiare e dalle domande che essa pone. I piani pastorali sono necessari, ma se sono troppo teorici si infrangono contro il buon senso.
Dalla vostra esperienza che cosa avete rilevato sulle famiglie di oggi?
Abbiamo trovato famiglie incapaci di mantenere le relazioni, che si dividono e si distruggono per banalità, sposi con fragilità enormi rispetto dal tema dell’affettività, della fedeltà e della generatività. Quando progetti la vita in un certo modo, non c’è spazio per una nuova vita. Non è uno spaccato pessimistico, è una fotografia di quello che vediamo. Il problema è che nessuno ha allenato le coppie a spendere energie per cose importanti. Oggi nelle parrocchie c’è un grande investimento sulla iniziazione cristiana, ma in maniera residuale ci si impegna con i genitori. Nelle parrocchie i percorsi di formazione permanente per gli adulti sono pochi. Ogni volta che noi ci siamo mostrati disponibili, le persone si sono fatte avanti, perché hanno voglia che qualcuno si prenda cura di loro. E dalle famiglie è venuto fuori un impegno per la comunità, generando altri servizi.
Come si alimenta la vostra spiritualità familiare?
Cerchiamo di restare radicati sulla Parola di Dio e di farlo con coerenza e insieme. Quando possiamo prima di pranzo insieme ai figli leggiamo un brano del Vangelo. C’è la preghiera: in alcuni periodi prima di andare a letto con i figli abbiamo recitato una decina del rosario. Sono piccole abitudini che viviamo in prima persona e lo facciamo non tanto perché sono giuste ma perché è bello e fanno bene.
Ma a volte i propositi si scontrano con la realtà. Siamo consapevoli delle nostre fragilità, ma sappiamo anche che ci sono i luoghi per risolverle, sia quando riguarda i nostri figli sia quando c’è qualcuno che ha bisogno di un intervento, sappiamo a chi chiedere aiuto. Se sei una persona bella, le persone lo vedono e ti chiedono come fai. Così per dare ragione della speranza che in te non è necessario andare ad una beauty farm spirituale ogni tanto, devi impegnarti a vivere nel quotidiano il radicamento nella Parola e nella preghiera.
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