Fr. Paoletti: Commemorare i fedeli defunti perché?
La morte e la bellezza della vita
Ha senso celebrare tutti i fedeli defunti, dedicare una giornata al loro ricordo?
La commemorazione di tutti i defunti, il 2 novembre, è una delle ricorrenze più sentite dal popolo cristiano e non solo. La domanda di eternità nell’essere umano è insopprimibile, anche se buona parte della cultura che respiriamo - appiattita sull’immanenza, chiusa al trascendente - tende a rimuoverla; ma sempre, prima o poi, riemerge.
La pandemia da Covid-19 sta riportando in primo piano la nostra precarietà e la nostra mortalità. Ci rendiamo conto che non siamo ‘a-mortali’. Una certa ideologia illuminista del progresso aveva promesso una felicità non più legata al dopo-morte, ma in questo mondo; invece un virus che non conoscevamo, e che è ancora difficile da conoscere, sta afferrando il mondo intero con la paura che si può morire, che ‘io’ posso morire. Tutti ora avvertiamo di vivere sotto una minaccia invisibile attesa e inattesa che potrebbe colpirci da un momento all’altro. L’angoscia per il Covid è data dal fatto che può colpire ‘me’: non è più l’anonimo “si muore” che sembra non toccarmi davvero.
La morte, oggetto di rimozione in larghi spazi della nostra cultura, si impone ora alla nostra coscienza come realtà non lontana. Allora il 2 novembre è un’occasione per verificare come ci poniamo di fronte al mistero della morte. Non è il vaccino quello che può sconfiggere la morte (può solo ritardarla). L’adagio medievale della “mors certa, hora incerta” rimane anche oggi una cruda verità: la morte è il problema dei problemi, inevitabile e inquietante. Anche se, paradossalmente, accanto alla sua sostanziale censura nella vita ordinaria, possiamo assistere alla spettacolarizzazione della morte in versione fantasy cinematografica.
La morte è certa, ma come interpretarla?
In una cultura idealista che non distingue il singolo dalla totalità, morire significa il dissolversi nel Tutto per continuare a vivere sotto un’altra forma; ma l’identità del singolo scompare, al più resta ciò che ha compiuto nella vita terrena. Questa concezione in cui la sorte del singolo ha poca importanza ha condotto perfino a giustificare l’uccisione di milioni di persone in nome della ragione di Stato o della giusta causa del progresso e della giustizia. Ma, dove la morte viene cancellata, viene cancellato anche l’essere umano nella sua umanità. Ancora più preoccupante è il fenomeno diffuso della rimozione pratica della morte, anche in molti di noi credenti cristiani.
L’idea di “buona morte” si è quasi capovolta. Fino a qualche secolo fa si pregava: “a repentina et improvĭsa morte libera nos Domine”: la morte buona era infatti quella attesa, a cui era possibile prepararsi in ogni senso. Oggi invece la morte ‘buona’ e augurabile sembra quella che giunge improvvisa, ancor meglio se in sonno: senza dolore, senza paura, senza consapevolezza. Paradossalmente, però, la rimozione della morte finisce con il diffondere, caricandola di terrore inespresso, quella morte che si vorrebbe tenere a distanza. La censura della morte avvelena la vita.
Non è forse lo smarrimento invincibile di fronte alla morte, di fronte al ‘dopo’ sentito come ‘nulla’, una delle cause più profonde dell’attivismo in-sensato e del consumismo che distruggono la natura e l’umanità stessa?
Solo la morte di una persona cara, talvolta, ci scuote e ci provoca ad interrogarci per imparare attraverso lo smarrimento la saggezza del vivere. Pensandoci ‘davvero’, la morte parla della vita; e può insegnarci a vivere bene. Ecco l’importanza di elaborare il lutto per imparare, attraverso la morte, qualcosa di più profondo sulla vita. Innanzitutto che siamo persone in relazione, chiamate alla comunione.
Il lutto, il dolore è segno che qualcosa si è spezzato, qualcosa di noi è morto con la persona cara. L’uomo è l’unico tra gli esseri viventi che sa di dover morire: gli animali periscono, solo l’uomo muore. L’uomo avverte il forte contrasto tra vita e morte perché sente una profonda sete di pienezza, di felicità, di eternità. La stessa morte parla della vita - forse per questo è così dolorosa. La morte è cifra dell’essere umano vivente.
Nella storia solo l’evento della Risurrezione di Gesù di Nazareth, centro e fondamento della nostra fede cristiana, conferisce quella interiore certezza che proviene dallo Spirito di Dio e che anima il cristiano Francesco di Assisi fino a spingerlo a cantare (l’8 maggio 1213, sul muretto della piazza del Castello di San Leo) «tanto è quel bene ch’io aspetto, che ogni pena m'è diletto» (FF 1897). ‘Tanto’ perché è eterno, è partecipazione alla risurrezione di Cristo, e la sofferenza è ‘diletto’ perché passa, ed è passaggio al bene. Anzi tutto passa, eccetto l’eternità. La vita senza eternità non è vita, perché è insidiata dalla morte priva di un ‘oltre’. Solo l’eternità corrisponde all’anelito profondo della vita: vivere per sempre, con le persone amate e con tutti.
Una domanda è bene che risuoni in questi tempo di pandemia, di smagamento: perché la vita eterna non ci attrae nel modo in cui attrae i cristiani autentici come Francesco, Chiara, … come tanti altri più vicini a noi, come molti dei nostri genitori e nonni? Non può dipendere dal fatto che possiamo desiderare veramente solo ciò che abbiamo già iniziato a vivere e gustare in questo mondo?
Francesco aveva un’esperienza di Dio, del Dio vivo e vero di Gesù Cristo, tanto che nel suo cammino terreno poteva dire con l’apostolo Paolo «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,21), perché il morire dona di essere nella pienezza della vita in Dio. Questa esperienza di Dio deve essere già in qualche modo presente, intuita, per poterla desiderare. Francesco era ‘occupato‘ tutto dal Signore Gesù, per questo desiderava essere per sempre e totalmente con il suo Signore.
E noi da cosa siamo occupati? Di cosa ci riempiamo?
Il giorno della commemorazione di tutti i defunti ci ricorda di pregare per/con tutti coloro che ci hanno preceduto nel segno della fede e si sono addormentati nella speranza della resurrezione, e per tutti coloro dei quali solo Dio ha conosciuto la fede (o le ragioni della non-fede sulla terra: “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa”, 1Gv 3,20). Così anche in noi, può darsi, sovvien l’eterno.
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