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Francesco e l'incontro con i lebbrosi

Far proprio il principio di alterità

L’espressione più significativa della “metanoia” di Francesco è l’incontro dei lebbrosi. Egli si spoglia di qualunque rivestimento egolatrico e va nudo incontro a questi “maledetti della terra”. Non è l’essere come vero, ma l’essere come dono che comincia a farsi largo, prevalendo sulla soggettività orgogliosa e autocelebrativa. Anche se non tradotto in specifiche enunciazioni dottrinali, l’essere come dono si impone come la sua stella polare. Siamo a un nuovo modo di guardare la realtà, non più nella logica di quell’oggettività che è propria del principio di identità, grazie al quale mi rapporto all’altro come cosa determinata - malato pericoloso per la salute pubblica, da tener lontano. Quella di Francesco s’annuncia come la strada dell’abbandono di sé all’altro, in totale gratuità.

Contro il primato del pensare oggettivante
Francesco sognava un futuro di inesplorata nobiltà. «Poiché era avido di gloria (gloriae cupidus erat) - scrive il Celano - nel sogno Dio lo conquise con il miraggio di una gloria più alta (gloriae fastigio eum allicit et exaltat)». Non soddisfatto della fama del mercante e svanito il sogno di diventare cavaliere, egli si ritrova alla fine avvolto da un’onda di vita nuova, ove gloria e umiliazione, nobiltà e servizio stanno insieme. Se non è quella degli oratores, dei mercatores, dei bellatores, di quale vita si tratta? Egli non va alla ricerca dell’altezza spirituale dei monaci, né aspira alla rilevanza sociale dei mercanti, o alla nobiltà aristocratica dei cavalieri. È la qualità della vita che lo assilla. Lo scenario degli stili di vita, sia civile che religiosa, gli appare ben povero. Nel Testamento Francesco ci mette a parte di come cominci a prender forma questo nuovo orizzonte, allorché accenna a come abbia cominciato a cambiare prospettiva (incipere faciendi paenitentiam), e cioè il “Signore mi condusse tra i lebbrosi” (Dominus conduxit me inter illos - leprosos), la cui visibilità sociale era concordemente interdetta.

Si annuncia un altro mondo, non accattivante; un’altra esperienza, quella dell’emarginazione; un altro versante, quello interiore. La situazione del lebbroso è la più umiliante, da sempre, aggravata dalle dicerie circa il suo insorgere, come quella che riteneva fosse provocata dal disfrenamento della libido e dunque accompagnata dalla condanna anche di Dio. Francesco lo confessa quando dice che “mi era troppo amaro vedere i lebbrosi”; e aggiunge: “Usai con loro misericordia, e allora quello che era amaro mi si trasformò in dolcezza di animo e di corpo”. Quale la gemma che Francesco crede di aver intravvisto nel corpo disfatto del lebbroso? Egli, infatti, sottolinea che “stetti poco e lasciai il mondo” (parum steti et exivi de saeculo), e cioè, uscì dal modo consueto di giudicare. Quale? Egli percepisce che il modo diffuso di giudicare l’altro consiste nella sua “oggettivazione” e cioè nella sua visibilità sociale. E questo stile non è innocuo, anzi carico di implicazioni di carattere sia teorico che esistenziale. È ovvio che, sotto il profilo oggettuale, il lebbroso è ripugnante, mentre altri, benestanti o nobili, risultano fonte di invidia e di imitazione. Ma in questo modo non si chiudono forse gli occhi su quella ricchezza interiore che, come tale, non solo è pari a ogni altra, ma è da privilegiare, dal momento che è avvolta dal velo umiliante del disprezzo e dell’abbandono da parte dei più? Il pensare oggettivante è il tratto proprio del pensare occidentale, che Francesco mette in discussione come primaria fonte di valutazione, perché parziale e deviante.

La scelta francescana
Francesco non si lascia guidare dalla verità oggettiva. Si è al di qua della strada che l’Occidente ama percorrere, lasciando fuori il mondo delle qualità e il regno delle soggettività dei soggetti. Pur consapevole dell’indole inestimabile di tale sapere, il francescano, non ritenendolo fontale e originario, ma derivato e funzionale, invita ad aprire un altro percorso, a fare un’altra scelta, a vedere le cose in altro modo. È la volontà lo spartiacque, ciò che ci distingue da tutti gli altri esseri e ci qualifica. L’intelletto rientra nel novero della “natura”, in quanto non può agire che come agisce, dicendo il vero se vero, il falso se falso. La ragione è una facoltà “determinata ad unum”. Anzi, di per sé la ragione non può dirsi una potenza propriamente attiva, perché vien messa in moto dalla volontà, qualificata da un’indeterminazione attiva, che allude al fondo abissale delle nostre potenzialità e ai molti percorsi che è possibile intraprendere. Siamo alla scelta originale del pensare francescano, irrazionalizzabile non perché irrazionale ma perché trascendente la ragione. L’incontro dei lebbrosi è voluto. È l’opera della volontà, non della ragione o della verità oggettuale, non però di una volontà cieca o puramente compassionevole.

La strada aperta da Francesco comporta una riconsiderazione di tutta l’avventura occidentale come anche dei suoi risultati, mettendone in discussione la gerarchia. La forza del gesto di Francesco sta nella capacità di intercettare l’altro sulla scena dell’essere con il cumulo dei suoi bisogni, di varia indole, rispondendo alla sua richiesta d’aiuto senza condizioni. Dove la fecondità di questo percorso?

Oltre l’identità oggettivata, verso la soggettività del soggetto
Ognuno conosce e si dà a conoscere in base a ciò che fa e dice. Cosa sappiamo dell’altro? Di cos’altro ci riteniamo testimoni? Per una qualunque valutazione non disponiamo che della storia oggettuale. E allora la domanda di fondo è: quando il soggetto progettando e operando si rivela come soggetto, non oggettivato né oggettivabile, e si rapporta all’altro come soggetto? O anche, in cosa effettivamente consiste la soggettività, non riconducibile all’oggettività del dato, propria del pensiero calcolante? In effetti, in quanto voluto, l’altro non può risolversi in ciò che è, ma è avvolto da quell’alone di senso e dotato di quel carico di virtualità che rinviano alla volontà di colui che non vuole ciò che è, di cui non c’è Traccia perché non è. Il principio della differenza pone in luce l’inoggettivabile come anima dell’oggettivabile e dunque mette a tema quello scenario di sentimenti, di allusioni, di speranza o di disperazione che segna la nostra personalità. Ecco il passaggio essenziale. Non è la razionalità a caratterizzare la soggettività del soggetto, ma quell’abisso o profondità, che si fatica a definire ma che accompagna e qualifica ciò che si è, confermandosi respiro dell’essere, in quanto essenzialmente apertura, proteso verso ciò che non è ma è possibile che sia - il lebbroso che Francesco avvicina, oltre ad essere ciò che è - un essere malato - evoca la volontà affranta dal peso del dolore; chiama in causa la società che l’emargina e insieme il volto di Cristo in croce, che lo accoglie. E non è forse “questo qualcos’altro” a imporsi col suo grido di dolore e a rendere sensata la sua soggettività?

L’altro cifra dell’“aperto” nel gioco relazionale del dono
E allora, come raggiungere l’altro come altro, non l’altro come autorispecchiamento, ma l’altro come riconoscimento? Quale la logica che deve presiedere a tutte le logiche in maniera che l’altro sia raggiunto come altro, nella consapevolezza che lo scambio ha luogo sul piano della soggettività? A quale logica affidare il nostro esercizio dell’essere?
La risposta è: la logica della libertà creativa di segno oblativo che, attraverso l’identità oggettuale, porta verso altri mondi, fa intravvedere ricchezze che altrimenti resterebbero nell’ombra. Se nel primo momento - quello oggettuale o anonimo - il lebbroso suscita ripugnanza, che Francesco sente fortissima, nel secondo - quando lo si scopre nella sua soggettività come “resto” della società e insieme figlio di Dio e immagine di Cristo in croce - si impone il ripensamento e il servizio e dunque la creatività, nel contesto della sua incancellabile dignità. Ecco la soggettività che è a cuore a Francesco, da raggiungere e tematizzare trascendendo il principio di identità, grazie al principio di alterità che fa spazio a quel fondo che ognuno vive a suo modo, spesso deturpandolo o solo abbandonandolo nell’oscurità dell’incoscienza. Il che è possibile impedendo che lo stile oggettivante prevalga su ogni altro. L’oggettivazione è preziosa perché ci costringe a non eludere la realtà, da funzionalizzare però a quella soggettività che in quell’oggettivazione si spegne nel silenzio di un dolore senza voce. Francesco mostra come sia possibile recuperare la dignità di questa schiera negletta di esseri umani, accogliendoli entro il circuito della propria soggettività, salvaguardata nel mentre salvaguarda la soggettività dell’altro, non giudicandola ma servendola. Via, questa, stretta e difficile, e tuttavia, unica per restituire all’altro la coscienza della sua dignità. È la scelta di Francesco, e cioè sciogliere quel grumo egocentrico, che porta al disinteresse o al disprezzo dell’altro, che la razionalità oggettivante non pone in discussione ma talvolta consolida. La vita - come ogni altro valore - va vissuta attraversando lo spazio oggettuale, per illuminarla di quella gratuità, che porta a trascendere tutte le forme sociali, con le quali per lo più si tende a identificarla. Occorre uscire dal primato del principio di identità oggettuale, proprio del pensare occidentale, e far proprio il principio francescano di alterità o di differenza, scendendo nel cuore dell’altro, al di là del ruolo, del potere, della professione.

Orlando Todisco - San Bonaventura Informa

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