FRANCESCO E LE COSE DEL MONDO
Il processo di laicizzazione e il dilagare dei culti neoreligiosi o parareligiosi sta inducendo un po’ tutti noi a una sorta di sincretismo strisciante, che coglie anche i più preparati quando sono stanchi o distratti. Alla luce di esso, Francesco, Milarepa, Teresa di Calcutta e Martin L. King sono più o meno la stessa cosa, o quanto meno “dalla stessa parte”.
Francesco viene immaginato come un asceta, un eroe della rinunzia e della penitenza. Non che tutto ciò sia insostenibile, al contrario: solo che bisogna intendersi, parlando di ascesi e di penitenza, sia sugli oggetti diretti sia sui programmi. Nel suo splendido, fondamentale Testamento, il Povero di Assisi afferma che, quando si trovava “nei peccati”, vale a dire prima della sua conversione, gli era “troppo amara la vista dei lebbrosi”.
Non dice affatto che “troppo dolce” gli fosse al contrario la vista – e il gusto - delle belle donne, dei ricchi abiti, dei begli apparati di guerra, dei cibi appetitosi, del buon vino. Né dice che tutte queste cose gli divennero, al contrario, “amare” dopo. Le aveva certo gustate, tutte: quando mutò vita aveva passato i vent’anni, che al suo tempo erano un’età già quasi “matura”.
E sarebbe stato troppo facile, troppo banale, se di queste attrazioni verso le bellezze e le delizie del mondo egli si fosse definitivamente e con facilità liberato. Al contrario. Per quanto sappiamo bene ormai quanto errato sia il bricolage tra le fonti più varie che ci raccontano la sua vita, il patchwork degli episodi eterogenei fra loro accostati e cuciti insieme a formare un racconto che può anche risultare tenero e divertente ma che nella sostanza somiglia in modo allarmante alla creatura mostruosa creata dal dottor Frankenstein, è difficile cedere all’onda delle tumultuose reminiscenze: e salgono subito alla mente il suo stesso accusarsi di essere “un ghiottone” (e la frequenza con al quale sembra accettasse gli inviti alle ricche tavole dei nobili che lo ammiravano), il suo rotolarsi nella neve e farsi con le sue stesse mani una “famiglia” di pupazzi di neve (moglie e figli) per vincere gli attacchi della lussuria, la volta nella quale stando oltremare diretto al campo crociato di Damiata non disdegnò una bella mangiata di carne arrostita, la sua predica mimata dinanzi a Chiara e alle signore di San Damiano a significare che solo con la rinunzia e la penitenza egli poteva vincere l’attrazione che le donne esercitavano ancora su di lui.
Pensiamo infine all’esempio sublime del suo desiderare, in punto di morte, di gustar ancora una volta i dolcetti di madonna Jacopa: il suo addio alla vita fatto di sapore di mandorle dolci e di profumo di acqua di rose.
Forse, oggi è tutto diverso. In un mondo scristianizzato, i cristiani superstiti non possono essere se non il sale della terra. Il modello di vita di Francesco, una possibilità fra tante nell’età della fede, oggi è forse divenuto almeno in una prospettiva esemplare l’unico praticabile se cristiani si vuol continuare a dirsi. Tale sembra essere il nucleo del messaggio che ogni giorno c’invia il papa che del Povero di Assisi porta il nome.
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