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I francescani, vita spesa per il bene della pace

Credits Ansa

“Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. Così il famoso passo del Vangelo di Giovanni. Quante volte lo abbiamo sentito citare, e innumerevoli volte, lo abbiamo sentito commentare. Nella storia della Chiesa, e in questo caso, nel particolare, nella storia della Famiglia francescana, abbiamo avuto molti esempi che hanno non solo ascoltato tale passo, ma lo hanno vissuto, in prima persona, nella pienezza del martirio. E quando parliamo di questo, è doveroso precisare che – basterebbe guardare alle diverse biografie di santi, beati, o “semplici” sai – si tratta, quasi nella maggior parte dei casi, di vite che si sono spese per la pace, per la fratellanza fra i popoli. Un leitmotiv compare, allora, in questa orchestra di anime: le loro parole hanno sempre cercato di fronteggiare il buio della guerra, portando il lume della pace.

Partiamo da lontano, in questo nostro viaggio che cerca di seguire orme di passi che hanno battuto il sentiero della pace. Orme di sandali francescani.

E’ il 1221, e duecento terziari, si recano in piazza dell'Arengo a Rimini, per opporsi pubblicamente all'invito del Podestà a prestare giuramento di fedeltà. Questo implica inesorabilmente di impugnare le armi, sotto lo stretto comando degli organi dello Stato. Essi dichiararono di “non potere nè combattere, nè portare le armi, sia di offesa che di difesa; perché volevano la pace con gli uomini e con Dio, conquistandola con opere di bontà, trasformando il male che è nel mondo in bene”.

Furono, allora, imprigionati. E così, Papa Onorio III, decise di scrivere una Bolla in loro favore.  Era il 16 dicembre 1221. Si rivolese al Vescovo di Rimini affinchè dissuadesse il Podestà di Faenza dal molestare i terziari. Di seguito, ci fu la loro liberazione. Questo, uno dei tanti episodi che dimostrano come i primi francescani secolari, fecero dell'obiezione di coscienza alle armi, andando contro tutte le guerre, una scelta radicale di vita. Era l’inizio “concreto” del ramo d’ulivo, del ramo della pace, simbolo precipuo della Famiglia francescana.




Fra la moltitudine di cristiani, messi a morte dai regimi comunisti nell’Europa dell’Est, troviamo  un gruppo di sessantasei Frati Minori Francescani della Bosnia-Erzegovina e della Croazia.  Il loro provinciale si chiamava Fra Leo Petrović, ucciso e gettato nel fiume Neretva a Mostar all’età di 59 anni, nel quarantesimo anno di vita religiosa. Tra questi, i famosi trenta martiri di Siroki Brijeg. Durante la dominazione turca della Bosnia-Erzegovina, dodici francescani originari dell'Erzegovina e provenienti da Kresevo in Bosnia, decisero di costruire un monastero nella loro terra d'origine, come segno di fede, e scelsero la località di Siroki Brijeg. Fu in questa località che costruirono la una chiesa dedicandola alla “Madonna Assunta in Cielo”.

Anno 1945.  Tempi di guerra, tempi in cui il conflitto mondiale nella terra juogaslava vedeva una situazione “critica” per diversi aspetti, anche perché dominava soprattutto un “senso di confusione” politica, assai diffuso, essendo l’ultimo vento di guerra del secondo conflitto mondiale. In questo periodo, ci troviamo di fronte a due contrapposizioni: da una parte, i partigiani dell'Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia e dall’altra parte, alcune divisioni tedesche, appoggiate da reparti collaborazionisti croati ed etnici. La guerra incalza, ma c’è chi si “ostina” a diffondere parole di pace. Sono loro, i frati francescani che, di lì a poco, conosceranno la palma del martirio. Infatti, il 7 febbraio 1945, i partigiani comunisti decisero di catturare i frati, di portarli fuori dal convento, e di ucciderli brutalmente, per poi cospargerli di benzina, e bruciare i loro corpi. Le fiamme bruciarono, ma non così fortemente da cancellare la loro testimonianza di pace, in territori di guerra.  

   

Non così fortemente, da far dimenticare le loro parole, pronunciate – alla sequela di San  Francesco – abbracciando la croce, che era stata presa dal convento e gettata via nel terreno: “Tu sei il mio Dio, il mio Tutto”.

“Ingannano il popolo perché distribuiscono alimenti della Caritas, che è imperialismo. Predicano la pace e così addormentano la gente”. Questo il decreto del comando maioista contro i Servi di Dio Michele Tomaszek e Sbigneo Strzałkowski, missionari polacchi dell’Ordine dei Frati Minori Conventuali, sequestrati e uccisi il 9 agosto 1991, durante la loro missione avviata in Perù nel 1989. Anche in questo caso, la missione di pace, le parole e le azioni di carità e amore, e fratellanza fra le genti, costarono la vita a dei religiosi francescani.



La Chiesa del Giappone, fondata da S. Francesco Saverio, ha rappresentato – fin dal suo nascere – una potente voce “ex coro” dal potere, per portare solidarietà e pace, nel continente nipponico. Siamo nella metà del Cinquecento. Le mire imperialistiche del dittatore Toyotomi Hideyoshi, spinsero il governatore spagnolo di Manila ad inviare in Giappone, in qualità di ambasciatori di pace, i frati francescani Pierbattista Blasquez, Bartolomeo Ruiz, Francesco di S.Michele, Gonzalo Garcia, ai quali poi se ne aggiunsero altri. Portatori di pace, i frati francescani, risultavano scomodi al potere della guerra, dell’espansione, della sopraffazione dei popoli. Furono loro a gettare le fondamenta dell'Ordine Francescano a Kyoto, e a iniziare una Missione in Giappone. 

I bonzi accusarono i francescani di essere contrari alle leggi dello Stato e pericolosi per la sicurezza pubblica. Questa, d’altronde, era assicurata col mezzo delle armi, e delle repressioni, ovviamente. Così, il dittatore ordinò l'arresto, nei loro conventi, di tutti i missionari spagnoli residenti a Kyoto, Osaka e Nagasaki, per essere poi condannati, insieme ai loro diretti collaboratori laici. Ma il loro numero era troppo elevato, e Hideyoshi, volendo comunque accontentare i bonzi, ridusse il numero dei condannati a ventisei. Sei di questi, erano frati francescani: Pierbattista Blasquez, Martino dell'Ascensione, Francesco Blanco, Filippo di Gesù, Francesco di S.Michele, Gonzalo Garcia.



Tutte queste vite, spese per il bene della pace. Tante altre, non citate in queste righe, hanno  – da sempre –testimoniato “orme di pace”, così come avevamo premesso nell’incipit. Orme, solcate da sandali francescani, calzati dai quei piedi che ricordano molto, quelli celebrati da Isaia, nel capitolo 52,7: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero che annuncia la pace,  del messaggero di bene che annuncia la salvezza, che dice a Sion: Regna il tuo Dio”.


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