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Il lavoro e i francescani

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Il rapporto dei frati con il lavoro manuale è connesso, inevitabilmente, con l’evoluzione cui è stata soggetta la stessa famiglia religiosa che, dal primitivo gruppo riunitosi intorno a Francesco verso il 1208, venne pian piano strutturandosi in un Ordine religioso numeroso e compatto: un Ordine che raggruppava membri di provenienza internazionale e non poneva confini al proprio apostolato, che presto avrebbe portato i frati non soltanto nel centro e nord Europa e nel bacino del Mediterraneo, ma anche nel lontano Oriente. La rapida esplosione dei Minori, che in pochi anni trasformò un piccolo seme in un albero poderoso, non poteva non produrre anche notevoli cambiamenti, e li produsse, di fatto, sia in ambito strutturale, sia nella coscienza che, pian piano, la nuova famiglia religiosa venne acquisendo di sé e della sua presenza nella storia: una coscienza non uniforme, dalla quale scaturirono risposte diverse alle sfide poste dalle situazioni via via differenti. 

Nelle sue ultime settimane di vita Francesco concepì e dettò, forse con successive riprese e integrazioni, il proprio Testamento, un testo di primaria importanza per comprendere la ‘sua’ stessa visione della propria esperienza religiosa. Il testo si divide in due grosse parti: nella prima, a carattere «biografico», Francesco ricordò l’esperienza della sua conversione e la vita condotta assieme ai suoi primi compagni; nella seconda, «prescrittiva», indicò ai frati modalità precise di azione, vietando di aggiungere o togliere alcunché al suo scritto, ordinando di tenerlo sempre vicino alla Regola e di non porre glossa alcuna a quest’ultima. Al termine, impartì la sua benedizione, non a tutti indifferentemente, ma a «chiunque» avrebbe osservato «queste cose». 

Lo scritto, pensato e ripensato, evidenzia pure quelle che furono le preoccupazioni più pressanti dell’ultima fase della vita di Francesco. La sua memoria si rivela selettiva. Non possiamo, infatti, valutare il Testamento alla stregua di una moderna autobiografia e neppure confrontarlo con un classico del genere, quali le Confessioni di Agostino. Francesco, infatti, non volle ripercorrere in modo analitico le tappe del proprio percorso, ma segnalò alcuni snodi fondamentali, sottolineando soprattutto quegli aspetti che egli riteneva potessero essere progressivamente dimenticati, in conseguenza dell’evoluzione a cui l’Ordine era soggetto e delle richieste e pressioni che provenivano sia dall’esterno che dal suo interno. Dobbiamo tener conto di tutto ciò quando leggiamo le nettissime espressioni che egli riserva al lavoro manuale. 

«Ed io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare; e voglio fermamente che tutti gli altri frati si adoperino nel “lavoreccio” (laborent de laboritio), il quale conviene all’onestà. E quelli che non sanno, imparino, non per la cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma per dare l’esempio e tener lontano l’ozio. Quando poi non ci fosse data la ricompensa del lavoro, ricorriamo alla mensa del Signore, chiedendo l’elemosina di porta in porta» (FF 119-120). 

I primi fratelli che si unirono all’Assisiate furono per lui un dono insperato e non cercato. Fu il Signore a dargli dei fratelli! Si trattò, tuttavia, di un dono che comportò nuovi problemi organizzativi, di notevole peso. Per un gruppo di persone, infatti, quello del cibo diveniva problema impellente. I fratelli dovevano vivere. Essi presero allora una decisione importante: stabilirono di sostenersi con il lavoro delle proprie mani, esercitando quel mestiere che avevano imparato prima di lasciar tutto e di unirsi al figlio di Pietro Bernardone, purché si trattasse di una professione non dannosa alla salute dell’anima, che poteva essere onestamente esercitata.

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