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La chiesa che accoglie

La riflessione sull’accoglienza, cifra dell’humanum vivente, ci sta conducendo a riconoscere in modo sempre più chiaro e con più fondamento che questa cifra ha il suo culmine nella fede cristiana, ossia nella relazione tra l’essere umano e il Dio di Gesù Cristo: una relazione che si dimostra vera solo nel rapporto accogliente tra le persone. Accogliere l’altro o respingerlo verifica l’autenticità della fede cristiana, «ero straniero e mi avete accolto». A ragione possiamo affermare che l’accoglienza è il nome della fede, fede e accoglienza sono le due facce della stessa relazione umana-divina: la fede si fa accoglienza, l’accoglienza suscita e verifica la fede (e qui parliamo di fede “della” chiesa e “nella” chiesa). Il tema che affrontiamo adesso è la chiesa come comunità accogliente, perché formata da persone ‘accolte’ che diventano a loro volta capaci di accogliere. Nei Vangeli, la comunità intorno a Gesù ha la forma di una famiglia, e di una famiglia accogliente, non di una setta esclusiva: vi sono i discepoli chiamati direttamente da Gesù, ma anche l’affamato e l’assetato, lo straniero e il perseguitato, la prostituta e il pubblicano, i farisei e le folle. Gesù non cessa di accogliere tutti, di parlare anche con chi si ritiene più lontano.

I discepoli sono scelti per prendersi cura di questa famiglia degli ospiti di Dio: «Una Chiesa davvero secondo il Vangelo non può che avere la forma di una casa accogliente, con le porte aperte, sempre. Le chiese, le parrocchie, le istituzioni, con le porte chiuse non si devono chiamare chiese, si devono chiamare musei!» (Papa Francesco, Udienza generale del 9 settembre 2015). Quella che nasce a Pentecoste è una Chiesa “in uscita”, che accoglie il dono dello Spirito e vive l’accoglienza lungo la storia ed è chiamata a ricomprenderne continuamente le pratiche. Oggi, grazie al magistero pastorale di papa Francesco, il riposizionamento missionario delle strutture ecclesiali induce a pensare che l’accoglienza cristiana sia un gesto itinerante, dal momento che a muoversi in avanti e in fuori è propriamente colui che accoglie. Se l’immagine a cui la Chiesa ricorre per rappresentare il proprio “posto” nel mondo è quella di una «carovana solidale», secondo l’immagine di papa Francesco (Evangelii gaudium, 87), occorre immaginare le pratiche di accoglienza che meglio caratterizzano una realtà itinerante, variegata, intraprendente, talvolta ferita e vulnerabile proprio come una carovana. L’accoglienza perciò non è mai un gesto di rimedio o un aspetto secondario, un ‘servizio’ opzionale che può essere offerto solo dopo che una comunità si è stabilizzata e accomodata: occorre riscoprire l’intensità radicale dell’accoglienza, il fatto cioè che essa è presente in ogni gesto, funzione e atteggiamento della comunità cristiana. Ogni pratica fondata sulla fede è radicalmente, profondamente accogliente. Ci si potrebbe chiedere pertanto che cosa significhi di volta in volta pregare, studiare, insegnare o sovrintendere ai bisogni di una comunità in maniera accogliente. Una questione importante oggi per la Chiesa, e in particolare per le comunità religiose francescane, è pensare l’accoglienza non come un’attività pastorale tra le altre, ma come stile radicale-radicato nell’accoglienza di cui Gesù ha dato l’esempio.

Affrontare come chiesa il tema dell’accoglienza nel momento presente richiede di considerare la mobilitazione generalizzata che interessa gli individui e le comunità a livello planetario e richiede un’attenzione costante ai nuovi arrivati e alle persone di passaggio. Le grandi migrazioni di massa ne sono solo un aspetto. La vita e le iniziative delle nostre comunità cristiane vengono interpellate da questa indicazione di fondo, che richiede di rivoluzionare la comune rappresentazione delle pratiche ospitali e di far nascere un dinamismo «… che non sarà più centripeto: “Venite da noi”, ma centrifugo: “Noi veniamo da voi”» (C. Theobald), con un cambiamento di prospettiva che appare tanto ambizioso quanto coinvolgente: i cristiani si riscoprono come un popolo in arrivo, anche dove sono tradizionalmente già presenti e influenti, esercitano l’accoglienza uscendo (letteralmente) di casa, arrivando in una città nuova, considerando città di arrivo anche quella in cui ciascuno è nato o vive da sempre la propria fede: «La “città di arrivo” diventa il nuovo luogo di riferimento per l’universalità della fede» (M. Eckholt). Il pluralismo delle culture spinge la Chiesa a chiedersi che cosa oggi significhi esercitare l’ospitalità culturale, nel proliferare di nuove culture «in queste enormi geografie umane dove il cristiano non suole più essere promotore o generatore di senso, ma che riceve da esse altri linguaggi, simboli, messaggi e paradigmi che offrono nuovi orientamenti di vita, spesso in contrasto con il Vangelo di Gesù. Una cultura inedita palpita e si progetta nella città» (Evangelii gaudium, 73). Per il mondo francescano, in modo particolare, l’ospitalità culturale ha a che fare con la minorità, ossia con l’esercizio dell’umiltà, con lo stile dell’abbassamento, con il tono della discrezione: Francesco è stato accogliente perché ha saputo farsi “mendicante di ospitalità”. La sua capacità di far sentire l’altro ‘come a casa’ è direttamente proporzionale alla sua capacità di farsi in prima persona questuante o richiedente asilo. I cristiani stanno nel mondo ponendo le loro opere sotto la figura di Colui che dal mondo è stato espulso, cacciato, rifiutato: «Dio si lascia cacciare fuori del mondo sulla croce, Dio è impotente e debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta al fianco e ci aiuta. È assolutamente evidente, in Mt 8,17, che Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza, della sua sofferenza!» (D. Bonhoeffer).

Questo principio continua a ispirare le nuove forme di accoglienza e ospitalità delle comunità di fede e di sequela. Accogliere non basta, occorre avere ed esercitare tatto nel farlo: il ‘modo’ dell’accoglienza è parte integrante del gesto. Colui che accoglie deve trattare con cura i sentimenti dell’altro, prestare attenzione alle sue reazioni e nello stesso tempo vegliare sui propri movimenti interiori, sulle intenzioni profonde che si accalcano nella mente e nel cuore di chi accoglie: «L’ospite richiede mille attenzioni, ha bisogno di essere messo a suo agio: soltanto così, e forse a stento, egli potrà non arrossire. Del resto, è naturale che chi riceve un buon trattamento, provi un certo senso di vergogna, per cui bisogna togliere tale imbarazzo, eliminando l’eccessiva disponibilità; occorre mostrare con le parole e con i fatti che chi accorda un beneficio, più che darlo, lo riceve» (Giovanni Crisostomo). Colui che cristianamente accoglie deve farsi sensibile anche alla sostanza etica del proprio gesto, e solo così potrà dischiudere la valenza più autenticamente umanizzante dell’accogliere: «Che cos’è per te la cosa più umana? Risparmiare vergogna a qualcuno» (Nietzsche).  (Rivista San Francesco - clicca qui per scoprire come abbonarti)

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