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La preghiera inedita di san Francesco

In un manoscritto dell’Archivio Histórico Nacional di Madrid

Francesco d’Assisi colpisce ancora. La recente pubblicazione di un’inedita preghiera che un manoscritto dell’Archivo Histórico Nacional di Madrid (segnatura L. 1258) attribuisce al Santo di Assisi, riafferma una verità troppe volte dimenticata, e cioè che il paziente lavoro di ricerca alla fine premia chi ha la pazienza di non demordere.

Halexander Horowski, l’autore dell’importante scoperta (in «Oratio composita a beato Francisco»: un’inedita preghiera di Francesco d’Assisi?, nella rivista «Frate Francesco. Rivista di cultura francescana», annata 88, 2022), è membro dell’Istituto storico dei Cappuccini e direttore di «Collectanea Franciscana», la rivista storica dell’Ordine; da molti anni, ormai, egli lavora quasi esclusivamente sui manoscritti medievali ed ha al suo attivo una bibliografia straripante.

Il ritrovamento è avvenuto — come spesso accade — in maniera imprevista, mentre nell’Archivio madrileno stava studiando il manoscritto in cui è presente una trascrizione del Testamento di santa Chiara: analizzando il codice, infatti, Horowski si è accorto che conteneva anche un altro testo al quale gli studiosi che se ne erano interessati in precedenza non avevano assegnato reale importanza.

Ebbene, ai fogli 286rb-287ra il codice riporta una preghiera latina, che la rubrica — vergata dallo stesso scriba che ne riproduce il testo — introduce con queste parole: «Oratio composita a beato Francisco». Una preghiera, quindi, composta da san Francesco (nel Medioevo i termini «santo» e «beato» erano intercambiabili).

Il manoscritto composto da 359 fogli dalle dimensioni interne di 220×165 mm, si compone di due parti cartacee, la prima stampata, la seconda manoscritta; quest’ultima, tuttavia, è stata pensata a completamento della prima, come si deduce dal fatto che l’amanuense predispose la numerazione progressiva delle singole carte con numeri romani nonché dal contenuto stesso dell’intero volume.

Si tratta di un’addizione concepita — e probabilmente anche vergata — da mani francescane, poiché contiene testi in latino e in castigliano afferenti alle diverse famiglie francescane, cioè all’Ordine dei Frati Minori, ai vari rami di Clarisse e ai Terziari. Ciò che è più importante è però che Horowski riesce a dimostrare che il copista del codice non si servì «principalmente» di fonti stampate, ma manoscritte, attingendo da diversi esemplari e non da una precedente raccolta già predisposta.

La preghiera è un invito a tutti gli spiriti celesti, alle categorie dei santi e a tutte le creature a unirsi nella lode per il grande dono, fatto agli uomini, dell’incarnazione del Figlio di Dio; l’autore attinge abbondantemente alla liturgia (s’inizia, infatti, l’antifona al Magnificat dei primi vespri per la festa per Tutti i Santi, testo già presente nel Graduale Albiense del XII secolo, ma anche in due esemplari del breviario assisiate dei Frati Minori tuttora conservati in Assisi, manoscritti 693 e 694) e alla Scrittura Sacra, creando intrecci fecondi. È un metodo, questo, familiare a Francesco d’Assisi; si pensi, ad esempio, alle affermazioni dell’Ufficio della Passione X V, 7: «Poiché il santissimo bambino diletto è dato a noi e nacque per noi lungo la via e fu posto nella mangiatoia, perché egli non aveva posto nell’albergo».

Si tratta di una contaminazione evidente tra la famosa antifona Puer natus est nobis e frammenti da Isaia (9,6) e dal Vangelo lucano (2,7), brani letti a Natale, durante la messa di mezzanotte: al testo liturgico dell’antifona Francesco unì le parole «in via, lungo la via», traendo l’idea da una delle Omelie sui Vangeli (l’VIII) di Gregorio Magno. Non dobbiamo peraltro dimenticare che il preciso apprendimento di testi biblici da parte del Santo — come scrisse Giovanni Miccoli — può «far ritenere tranquillamente opera tutta sua le preghiere che, come l’Officium passionis, non sono altro che un tessuto di citazioni e di centoni del testo sacro».

E uno studioso attento come Ottaviano Schmucki coglieva proprio nella padronanza mnemonica del Salterio l’origine degli attributi di «Altissimus» e «Sanctus» con i quali, tra gli altri, Francesco qualifica Dio. Inoltre, è stato dimostrato che la recita del Breviario esercitò notevole influenza su alcune occorrenze patristiche presenti negli scritti. Questi elementi, di per sé, non bastano a provare l’autenticità della Preghiera, cioè che essa possa — con ragione — ascriversi a Francesco d’Assisi; dicono soltanto che non è irragionevole attribuirgliela. Eppure rinviano a lui anche alcune particolarità lessicali, delle quali Horowski mostra diversi riscontri puntuali, cui si può forse aggiungere l’espressione «figli degli uomini» (filii hominum), tratta dal salmo 4,3, che ritorna pure nell’Ammonizione I (I, 14).

C’è poi un altro motivo, che non è possibile trascurare, vale a dire che un falso — qualora davvero si trattasse di una contraffazione — richiederebbe un motivo sufficientemente valido a giustificarlo. Nel caso specifico, tuttavia, il copista non ne avrebbe avuto nessuno, poiché di preghiere poteva attingerne tante altre dai testi autentici; e neppure l’avrebbe avuto un ipotetico falsificatore, dal momento che per costruire un falso è necessario — come si diceva — una ragione che motivi l’opera di falsificazione (ad esempio, riaffermare l’autenticità delle stimmate, spesso contestata nel corso dei secoli, oppure definire questioni interne alla vita dell’Ordine, come poteva essere il rispetto della povertà e della Regola, o altro ancora), ciò che nel caso in questione non si riscontra affatto.

Per tutte queste cause Horowski ritiene l’Oratio da lui rinvenuta «come un testo di Francesco sufficientemente avvalorato». Nella sostanza convengo con lui, nel senso che, alla luce dei fatti, l’onere della prova spetta non tanto a chi sostiene l’autenticità dello scritto, quanto piuttosto a chi intende negarla.

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