Le Chiese in prima linea di Enzo Bianchi
Non potevamo certo immaginare che l'incontro di Bose «Beati i pacifici» avrebbe avuto luogo in giorni abitati da rumori di guerra ed efferatezze talmente intensi, diffusi e ripetuti da prefigurare una terza guerra mondiale già in atto, anche se «a pezzi», a puntate, come lucidamente denunciato da papa Francesco. Sì, l'annuncio della beatitudine evangelica per quanti agiscono per la pace - «Beati coloro che si adoperano per la pace» - spesso ripetuta nella Divina Liturgia ortodossa, non solo continua a interpellare la coscienza di ciascuno e la prassi delle Chiese, ma è chiamato con urgenza a tradursi in prassi capace di rimuovere ostacoli grandi come montagne, di ricreare condizioni di umanità e di giustizia tali da poter far regnare quel minimo di non belligeranza che è preludio alla pace, tra i popoli e nel cuore delle persone.
Il ritrovarsi fraterno di vescovi e studiosi, di monaci e monache, di uomini e donne provenienti da confessioni cristiane e nazioni diverse - accomunati dal desiderio di restare fedeli al Vangelo e al suo messaggio di pace - costituisce un appello alle Chiese a essere fermento di riconciliazione nell'oggi della storia. La speranza della pace annunciata in Cristo, infatti, non è un'utopia inefficace di fronte alla logica del potere e del conflitto, bensì un evento nella storia, che s'incarna ogniqualvolta semplici uomini e donne decidono di agire come «operatori di pace». Ora, il tema
della pace, intrinsecamente legato al Vangelo proclamato e vissuto, è un impegno di sempre: sull'annuncio della pace la Chiesa decide della sua fedeltà al Signore Gesù, il cui nome è pace.
Tutto il Nuovo Testamento insiste che Gesù Cristo è la nostra pace, egli è colui che è venuto a proclamare la pace ai lontani e ai vicini. Lo stesso Vangelo viene chiamato nella lettera agli Efesini «la buona notizia della pace»: per questo la pace è il dono per eccellenza del Risorto. Ma «fare la pace», oggi come sempre, è un'azione a caro prezzo: mai rispondere al male con il male, ma cercare sempre di replicare con il bene, può comportare anche di perdere la propria condizione di pace. Fare la pace significa intervenire nei conflitti, subendone la violenza, per aprire sentieri di dialogo, di riconciliazione, di pacificazione. È un comportamento attivo che tenta di distruggere l'inimicizia, ma senza annientare o ferire il nemico, sull'esempio di Gesù, il quale «ha fatto dei due nemici contrapposti e separati una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l'inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha creato in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e ha riconciliato tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l'inimicizia».
A coloro che «fanno» la pace, agli «operatori di pace» la beatitudine annunciata da Gesù promette che «saranno chiamati figli di Dio», titolo che nel Nuovo Testamento assume un significato particolarissimo in riferimento a Gesù, il «Figlio amato» del Padre, colui che ha con Dio una relazione di intimità unica e irripetibile. Ebbene, applicando questo stesso titolo agli operatori di pace, Gesù non solo riprende la tradizione veterotestamentaria, ma promette anche una partecipazione alla sua stessa identità. Chi opera la pace, proprio perché assomiglia al Padre nel compiere una tale opera, manifesta di essere generato da Dio, merita di essere riconosciuto suo figlio nel Figlio Gesù Cristo. Lo sappiamo, Dio è Padre di tutti gli esseri umani, discendenti di «Adamo, figlio di Dio», ma non tutti meritano di essere chiamati e riconosciuti tali, conformi a lui, aventi il suo sguardo e il suo sentire: gli operatori di pace sì!
Quanti si impegnano in verità per la pace assomigliano infatti a Dio, collaborano con lui alla realizzazione del suo piano per l'umanità e realizzano dunque la sua volontà manifestatasi pienamente in suo Figlio. Allora, se «pensare» la pace resta una sfida aperta per la teologia contemporanea, ogni cristiano può testimoniarla con la propria esistenza vissuta da riconciliato, con se stesso, con gli altri, con il cosmo. L'ininterrotta catena della santità offre una risposta a questa ricerca di vie di pace sempre rinnovate: sant'Antonio il Grande «aveva ricevuto da Dio il dono di riconciliare quanti erano in discordia»; come lui, hanno mostrato una via di riconciliazione santi come Francesco di Assisi in Occidente e Serafim di Sarov in Oriente, assieme a tanti oscuri testimoni della speranza, fino ai pionieri del dialogo e della riconciliazione tra le Chiese e ai nuovi martiri del XX secolo e dei nostri giorni che, a immagine del loro Signore, hanno vissuto l'amore fino al dono estremo della vita e al perdono del persecutore. «Chi ci insegnerà la bellezza della pace? - si chiedeva san Basilio il Grande -: l'artigiano stesso della pace, il Cristo. Egli ha... stabilito la pace con il sangue della sua croce tra le cose del cielo e della terra». Diventare operatori di pace significa esercitarsi a vedere la bellezza della pace e viverla, per ritrovarne la forza di attrazione e dilatare la speranza di pace nel mondo. Enzo Bianchi Avvenire
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