Perché San Francesco è chiamato Padre Serafico?
Cosa vuol dire il termine serafico? Da dove deriva?
Perché chiamiamo San Francesco d’Assisi il “Padre Serafico”? Tanti sono i nomi che leghiamo al santo della città umbra: il Poverello di Assisi; alter Christus; il folle di Dio. Fra questi colpisce uno, in particolare: “Padre serafico”. Ma cosa vuol esprimere tale appellativo? Cerchiamo di comprenderne meglio il significato.
Ci aiuta il dizionario, indispensabile strumento per poter comprendere - appieno - il significato delle parole. “Serafico”: seràfico aggettivo dal latino medievale “seraphĭcus”, derivato da “Serăphīm”, serafino, proprio di un serafino. Ma chi è il serafino? Le domande si accavallano come le onde del mare. “Vidi il Signore seduto su di un trono, ed il suo seguito riempiva lo Hekhal. Sotto di lui stavano i serafini, ognuno con sei ali, e due di queste ricoprivano il loro viso e due i loro piedi, mentre con le ultime due volavano”, così dice Isaia al capitolo 6. Una bellissima descrizione questa del trono del Signore, una bellissima descrizione di chi sia il “serafino”. Nel cristianesimo il serafino (dall'ebraico śārāf, al plurale śərāfîm, appunto) rappresenta una delle nature angeliche, o spiriti celesti. Normalmente in gruppo, i serafini si situano nella prima gerarchia, essendo gli angeli più vicini a Dio, residenti nel cielo supremo, quello empireo o cristallino.
San Tommaso d'Aquino, nella sua Summa Theologiae, ci spiega con il suo consueto acume cosa voglia dire “serafino”. Leggiamo, allora, questo passo: “Il nome di serafini non viene desunto dalla carità come tale, ma da una sovrabbondanza di carità come indica la parola ardore o incendio. Perciò Dionigi interpreta il nome 'serafino' in base alle proprietà del fuoco, in cui il calore è in grado eccedente”. E, ancora: “In primo luogo, il suo movimento che tende verso l'alto e che è continuo. E ciò sta a indicare che è nella natura dei serafini di muoversi costantemente e invariabilmente verso Dio. In secondo luogo, la sua virtù attiva che è il calore. E questo si trova nel fuoco non in un modo qualsiasi, ma in un grado acuto, giacché esso è sommamente penetrativo nel suo agire, giungendo sino alle intime fibre; ed è inoltre accompagnato da un incontenibile fervore. (...) In terzo luogo, nel fuoco va considerato lo splendore. E ciò sta a indicare che questi angeli possiedono in se stessi una luce inestinguibile, e che loro sono in grado di illuminare perfettamente gli altri”.
San Francesco: ardore per il Signore, fuoco inestinguibile per il prossimo, per gli ultimi, per gli indigenti. Nel commento di San Tommaso d’Aquino come non trovare la figura di San Francesco? Sembra davvero che in quel “muoversi costantemente” verso Dio, si possa ritrovare il movimento costante dell’anima del santo di Assisi. E poi, questo “calore”: chiunque abbia incontrato San Francesco, ci parla di una sorta di fuoco che lo divorava. Il fuoco - ricordiamolo - è espressione dello Spirito Santo. La “luce inestinguibile” di cui parla il santo domenicano è la stessa luce che trasfigurava il volto - potremmo dire - di San Francesco. Per questi motivi, non poteva che chiamarsi “serafico”. E lo sa bene Padre Dante che nel Canto XI del Paradiso definisce Francesco “tutto serafico in ardore”: è l’ardore del cuore, è l’ardore dell’Amore.
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