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SAN FRANCESCO E PAPA BERGOGLIO: UOMINI, E DUNQUE POVERI

Cosa intendono San Francesco d’Assisi e papa Jorge Mario Bergoglio per povertà? Perché questo loro amore per gli ultimi, per la sofferenza, per chi ha meno degli altri? E su cosa si fonda il loro metro di paragone per definire chi è più indigente?

Credits Ansa

Molti pensano che la scelta di san Francesco nell’abbracciare la povertà sia esclusiva di un’anima santa, quindi di un modello impossibile da imitarsi. Insomma, di quegli esempi di vita che rimangono al massimo impressi sulle immaginette dei “santini”.

La vita di Francesco d’Assisi è un appello a scegliere la povertà: questo è vero, e può apparire un monito alla follia. Ma la sua pazzia è semplicemente un invito a che tutta l’umanità possa prendere coscienza di quale sia la povertà che ci coinvolge tutti, rendendo l’uno uguale all’altro. La vita, come sappiamo, rende più o meno fortunati sin dalla nascita. La vita è una dolce e amara sinfonia, perché concede ma priva degli strumenti utili ad affrontarla. Francesco d’Assisi è diventato santo perché ha trovato una delle chiavi di lettura attraverso la quale dare senso a gioie e dolori della vita terrena. Il suo concetto di povertà è insito nella condizione stessa dell’umanità, nell’esistere, in quanto non saremo mai così ricchi da poterla comprare, la vita, tanto alto è il suo valore e tanto fragile è la nostra condizione di fronte ad essa. Questo per significare il perché agli occhi di Papa Bergoglio, di Cristo, “ultimo” è il profugo che fugge da guerre, e allo stesso tempo “povero” è quel governo che sgancia bombe intelligenti con l’obiettivo di portare la pace; ma ultimo è anche chi subisce mobbing sul posto di lavoro, così come povero chi provoca quel disagio; ultimo è chi soffre per una malattia incurabile, e povero è chi tenta di alleviare o guarire le pene del prossimo. E così via. Come esseri umani siamo fatti di povertà, in quanto ci mancherà sempre qualcosa, che sia una gioia, una malinconia, la libertà, la capacità di fare del bene, o un giorno in più di vita per sperare e desiderare ancora un’ultima volta il futuro.

Tutto ciò sembrerebbe condurre a una definizione relativista dell’ideale francescano, o alla posizione ultima di un agnostico che filosofeggia sui motivi dell’esistenza umana. Ma non è così. Anche il Papa è conscio che la conoscenza della vita non concede ancora risposte importanti sull’esistenza in sé, o sul perché del dolore, avvolgendo i nostri quesiti in un candido ma irrisoluto mistero. Ma il nostro Papa non misconosce certamente il fatto che la povertà si vinca con un esercizio costante alla ricchezza. La ricchezza di una risposta profonda: la consapevolezza nel corpo e nell’anima di ciò che si è e si fa in ogni singolo istante. Bergoglio si è messo nei panni di Francesco per fare sue le stimmate della società contemporanea, carica di emarginati, individui rifiutati, carcerati, ultimi che vivono nelle periferie della considerazione globale. Non temiamo dunque il futuro, perché il Papa è in strada con noi e ci porge una mano per camminare insieme, con misericordia, perché è povero anch’egli come tutti noi. Come chi ci odia, come chi ci ama. 

 

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