San Francesco secondo Erich Auerbach
Com’è noto, Erich Auerbach, uno dei maestri (assieme a Ernst Robert Curtius e Leo Spitzer) della stilistica moderna, già titolare della cattedra di Filologia romanza a Marburg, nel 1936, fu costretto a lasciare la Germania a motivo della politica razziale nazista per rifugiarsi in Turchia, dove continuò a insegnare nell’università di Istanbul fino al 1947 e dove scrisse (tra il 1942 e il 1945) il suo capolavoro: Mimesis.
Il realismo nella letteratura occidentale, pubblicato nel 1946 (tradotto in italiano nel 1956). Chiuse poi la sua vita negli Stati Uniti, dove insegnò in diversi atenei, nel 1957. In quel volume meritatamente famoso, lo studioso sostenne che la Bibbia — e non solo l’Antico Testamento, come ci si sarebbe potuti aspettare da un uomo di origine ebraica, ma anche il Nuovo, secondo quanto rivelano alcune splendide pagine sul rinnegamento di Pietro nel racconto dell’evangelista Marco — con quella sua mescolanza degli stili (il sublime, riservato alla tragedia e all’epopea, e l’umile, riservato alla commedia e alla satira), che era invece sconosciuta alla letteratura classica, abbia in sostanza dato origine alla rappresentazione del reale in letteratura.
Ebbene, Auerbach ha dedicato pagine piene d’ammirazione per Francesco d’Assisi e non solo in Mimesis — dove lo descrisse con i tratti di un uomo capace di personificare «in modo esemplare la fusione di sublimitas e humilitas, l’unione estatica, solenne con Dio, e la realtà concreta universale, senza che sia più possibile separare l’azione e l’espressione, il contenuto e la forma» — ma anche in un saggio precedente di quasi vent’anni la sua opera maggiore. Pubblicato originariamente su una rivista nel 1927, quel testo è stato ora di nuovo edito in forma autonoma dalle Edizioni Biblioteca Francescana con il titolo L’importanza della personalità nell’ascendente di san Francesco d’Assisi (Milano, 2021, pagine 80, euro 12, a cura e con introduzione di Francesco Valagussa).
Egli vi dichiara la sua «intima convinzione che il santo abbia esercitato sui posteri un influsso che travalica la cornice della Chiesa» e ne riassume l’intera dottrina nel monito espresso nella Regola non bollata (VII, 2) «siano [i frati] minori e sottomessi a tutti», traendone conclusioni anche dal punto di vista ecclesiale: «È chiaro che anche il suo atteggiamento nei confronti della Chiesa era di totale subordinazione», in una scelta di vita che non era centrata su «l’eremitaggio e la contemplazione appartata e aristocratica», quanto piuttosto sulla «sequela di Cristo nel bel mezzo del saeculum, la sottomissione e il servizio alla creatura». Francesco — scrive Auerbach — «non era un interprete escatologico delle Scritture, né un teorico maestrino di vita terrena, e proprio qui risiedeva la sua forza».
Lo studioso conosce e cita agevolmente (nell’edizione Boehmer del 1904) gli scritti dell’Assisiate, e con il supporto di tutta una serie d’appropriati esempi (tratti, nella quasi totalità, dalle opere di Tommaso da Celano) ne sottolinea il fascino innegabile: «Ha fecondato per secoli la fantasia popolare», grazie soprattutto alla sua «attitudine alla teatralità»; e come scriverà poi in Mimesis, dalla sua conversione fino alla morte, «tutto quello che fece fu una rappresentazione; e le sue rappresentazioni erano di tale forza che egli trascinava con sé tutti coloro che lo vedevano o ne avevano soltanto notizia».
All’ascendente «smisurato» che promanava dalla sua espressività, si aggiunse quello, «assolutamente raffinato ed impalpabile», della «giocondità del suo atteggiamento, che risplendeva in modo assolutamente imprevedibile». Non minor fascino e non minore efficacia Francesco seppe esplicare attraverso i suoi scritti. La Let tera a frate Leone (uno dei due autografi del Santo che ancor oggi ognuno può ammirare nel duomo di Spoleto) è considerato da Auerbach nel suo saggio del 1927, pur «nel suo modo d’esprimersi maldestro e oscuro, (...) uno dei documenti di eloquenza più rilevanti di tutti i tempi: non è possibile trovare nulla di paragonabile nel Duecento e nel Trecento».
In Mimesis, invece, egli analizza la Lettera a un ministro, in un confronto serrato con una stupenda lettera di Bernardo di Chiaravalle (la num. 322). Quella dell’abate cistercense gli appare indubbiamente uno scritto «vivo ed entusiasmante», «ma quanta consapevolezza — commenta il grande critico tedesco — nella sua composizione, quante cognizioni sono necessarie per la sua comprensione! Quanta ricchezza di forme retoriche». Viceversa, nel brano che cita della Lettera di Francesco (il riferimento è ai vv. 1-10), Auerbach sottolinea come «non c’è né un’interpretazione della Scrittura, né ci sono figure retoriche; la costruzione delle proposizioni è affannosa, maldestra e senza ripartizione calcolata dell’insieme; tutte le proposizioni cominciano con “et”.
Ma colui che scrisse queste righe frettolose è evidentemente talmente preso dal suo argomento, e il bisogno di comunicare e di essere compreso è talmente grande, che la paratassi diventa un’arma di loquacità; simili a potenti onde marine le proposizioni comincianti con “et” partono dal cuore del santo per infrangersi contro il cuore di colui al quale sono destinate». Ne conclude, nel saggio oggi riproposto alla nostra attenzione: «Il suo [di Francesco] ascendente personalissimo continuò a permanere come eredità incrollabile della nazione italiana: la forza intensa e risolutiva della sua espressività, che penetra per così dire nel corpo delle cose e sembra dischiuderle dall’interno, unita all’eleganza del suo cuore, delicata, fine e non meno profonda. Proprio quelle stesse qualità tramite cui la Divina Commedia si distingue dal Minnesang tedesco o dalla lirica provenzale». Pagine dense e meditate quelle del critico tedesco: rileggerle sarà un godimento e non potrà che farci del bene. (Ossercatore Romano)
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