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Santa Sofia e la guerra di religione, cosa insegna San Francesco

Relazioni solide, diplomazia: così i francescani hanno fatto breccia in Terra Santa

Nelle scorse settimane l’informazione che osserva con attenzione le vicende internazionali ha posto ai suoi lettori una domanda semplificante nella sua formulazione: è giusto che la basilica di Santa Sofia di Istanbul torni a essere utilizzata come moschea?

Stigmatizzando la scelta del Presidente Erdoğan molta parte dell’opinione pubblica occidentale ha colto in essa l’ennesimo segno di involuzione di un regime autocratico alla ricerca di consensi interni, erosi dalla crisi economica e dalla impossibilità di mantenere le molte promesse elettorali fatte lungo gli ultimi decenni. Resta il fatto che, al di là del tatticismo di una scelta politica che pesa, la decisione del presidente turco ci ha costretto a fare i conti con la storia e con la complessità che essa porta sempre con sé. Possiamo imputare a un “sovrano” la decisione di ripristinare o di re-imporre il culto musulmano dentro le mura di un edificio che è stato una moschea per cinque secoli interrotti dalla scelta laica e illuminata di Ataturk? Possiamo dimenticare, nel ripercorrere le radici di questa vicenda, che i crociati armati provenienti dall’Europa occidentale del XIII secolo imposero alla basilica simbolo della religione cristiana d’Oriente il rito latino e l’esautorazione da quella sede del patriarcato costantinopolitano? Quale è il peso della forza e quello dei diritti in entrambi questi momenti chiave della storia di Santa Sofia? Sono domande ineludibili che richiedono una risposta articolata e contestualizzante. Sono quesiti sfidanti che possono trovare una base ulteriore di riflessione e di conoscenza storica se proviamo a ricordare la vicenda plurisecolare di un Medio Oriente conteso e sempre sospeso sul filo delle contrapposizioni religiose, delle identità costruite e contrapposte.

In questo quadro, nello stesso secolo nel quale Santa Sofia venne ridotta dai crociati a basilica latina, un uomo, Francesco d’Assisi, si interrogava sul metodo per poter costruire un confronto con l’infedele e provava la via dell’incontro disarmato, del confronto inerme ma non inerte con chi non apparteneva alla sua fede, cattolica e romana. La distanza che separa la “conquista” crociata di Santa Sofia – finanziata da Venezia – dal famoso incontro di Francesco con il sultano nipote di Saladino è di soli quindici anni: 1204-1219. Siamo ancora una volta all’interno di una crociata, questa volta lanciata contro l’Egitto mamelucco. Ed è in quel contesto bellico che Francesco riesce nell’impresa di attraversare le linee nemiche e farsi ricevere dal principale capo politico del mondo musulmano di allora. Dall’analisi storica di quella opzione, dal forte impatto mediatico, il libro che ho scritto (Dopo Francesco, oltre il mito- I frati Minori fra Terra Santa ed Europa, Viella, ndr) muove i suoi primi passi per verificare non “l’intenzione di Francesco”, il suo reale o attribuito “desiderio di martirio” che l’avrebbe spinto ad entrare nella tenda del nemico-sultano, ma, invece, la lunga storia dei seguaci del “Poverello”. Sul piano dei documenti e su quello della storia il volume ricostruisce le modalità con le quali i francescani accolsero, interpretarono ed attuarono il significato di quell’atto singolare e, per certi versi, clamoroso. Presenti in Terra Santa nel secolo crociato, il XIII, cacciati come tutti i latini con la fine militare della presenza occidentale avvenuta nel 1291, i frati Minori pensano l’impensato: tornare a Gerusalemme e in Terra Santa senz’armi. È un’opzione religiosa, politica e diplomatica che ha successo: dal 1333, l’anno del loro re-insediamento, sino ad oggi la presenza francescana in quei luoghi è rimasta salda, attraversando la dominazione mamelucca, ottomana e la complicatissima storia dell’ultimo secolo sorto dalle ceneri dell’Impero ottomano. Poco meno di 40 anni dopo la perdita definitiva di ogni presidio crociato i frati Minori iniziano a tessere una tela di relazioni, di contratti, di trattative che li riporta a Gerusalemme trasformandoli in “custodi” dei Luoghi Santi, immettendoli in complicate dinamiche di convivenza e di tensioni con tutti i soggetti e gli attori presenti ora come allora in quei territori.

La loro solidità di pensiero si traduce in fatti e in risultati, dimostra la duttilità dei frati nel saper onorare la fedeltà alla Chiesa e al papato accettando il ruolo di convinti predicatori di crociata in Europa e, nel contempo, nel saper consolidare una presenza monopolistica del cristianesimo latino nei luoghi più sacri per tutti i cristiani, ma anche per gli ebrei e i musulmani. Il libro, insomma, intende restituire un quadro sfaccettato, oggi diremmo di contraddizioni forse irrisolte, tra queste sfere dell’agire francescano che ha voluto rispondere in Oriente all’impegno conversionistico, al dovere di testimonianza, non obliterando, in Occidente, l’impegno quotidiano per reclutare crociati: uomini disposti a combattere e a finanziare imprese militari tese ad erodere la forza di un impero “musulmano” definitivamente impiantato tra Istanbul e Gerusalemme.

I francescani, gestendo le campagne crociate in Europa, si dimostrarono in grado di controllare patrimoni impegnati per quello scopo, di verificare le soddisfazioni dei voti assunti da chi prendeva la croce e, infine, di saper calcolare il valore in denaro di chi, invece, ci ripensava e riscattava nelle loro mani il voto che non se la sentiva più di onorare. La loro capacità d’azione resta un dato storico incontrovertibile che ha attraversato tutti i secoli del Medioevo e che oggi è testimoniata dalla vitale presenza della Custodia di Terra Santa. Il volume indaga sulle ragioni ideali, culturali e politiche che sono alla base di quell’esperienza per certi aspetti straordinaria, nata per iniziativa di un Ordine che, su questo versante, non si era certo mosso di conserva con il papato. Ci vollero infatti ben nove anni perché il pontefice riconoscesse il successo francescano e, infine, lo legittimasse. Anche per questo la storia dell’impresa minoritica si rivela interessante dimostrando la forza culturale, il pensiero strategico di un Ordine che, negli stessi decenni in cui approdava inerme in Terra Santa, era stato oggetto di attacchi pesantissimi rivolti alla sua identità di Ordine di poveri volontari. Occorre infatti ricordare che lo stesso papa che assisteva da lontano all’impresa francescana in Oriente minò la base ideale del francescanesimo con una serie di bolle che decretavano, sul piano del diritto canonico, l’impossibilità di rinunciare alla proprietà individuale e comunitaria dei beni e delle ricchezze. È in questo contesto, drammatico, che ai frati Minori riesce non solo di sopravvivere e rilanciarsi, ma di tornare a Gerusalemme.

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