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La via mistica dell'Islam di Gianfranco Ravasi

Talora si affaccia persino nel telegiornale e di solito trascina con sé la notizia tragica di un attentato con vittime: è Herat, una città e provincia dell'Afghanistan occidentale, coinvolta nello stillicidio del l'amara vicenda recente di questa terra, un tempo marginale e ora assurta a emblema di uno scontro tra Oriente e Occidente che sembra non avere approdo. Là, all'ombra dei minareti di una città allora prospera di commerci, nel 1006 nasceva Ansâri dal nome emblematico. In arabo, infatti, ansâr significa "ausiliari" e si applica a quegli abitanti di Medina che accolsero e sostennero Maometto in fuga dalla Mecca: un antenato del nostro personaggio era appunto tra costoro e, così, l'epiteto divenne il cognome di una genealogia dalla quale derivò questa figura originale della tradizione sufi.


Anche chi non bazzica la cultura islamica sa che sotto questo termine, derivante probabilmente dal mantello di lana (in arabo sûf) indossato dai suoi adepti, si rubrica una corrente mistica musulmana dai contorni ideali emozionanti, capace di elaborare una letteratura di alta qualità poetica e spirituale, incline ad accorciare la distanza tra Dio e la sua creatura in un abbraccio d'amore. Come abbiamo avuto occasione di attestare altre volte su queste pagine (ad esempio, con la tradizione dei "dervisci" danzanti e del loro fondatore Rûmî), alcuni loro maestri come il capostipite al-Basrî, l'affascinante Râbi.(a, il martire crocifisso al-Hallaj, il grande teologo al-Ghazâlî, il poeta Nizami, autore della celebre storia d'amore tra Layla e Majnun, conquistarono l'Occidente col loro messaggio aperto, sereno, intessuto di pensiero, di poesia e di amore. Ebbene, con Ansâri di Herat abbiamo l'occasione di conoscere un altro volto del sufismo, ben più severo, conservatore, pronto a intrecciare la sharî.(a, cioè la rigida e rigorosa legge dell'ortodossia islamica, con la tarîqa, ossia la via mistica del sufismo.


Egli, infatti, era stato allevato all'insegna della dottrina "hanbalita" (dal suo artefice Hanbal del IX secolo), la più tradizionalista e letteralista, sospettosa nei confronti delle infiltrazioni ermeneutiche di matrice greca che allignavano nel ceto intellettuale del califfato abbaside. È, quindi, particolarmente interessante seguire il percorso teologico-mistico di Ansâri: egli, infatti, impugna il vessillo dell'islam radicale ortodosso contro le degenerazioni dialogiche della teologia dialettica, devastata ai suoi occhi dal razionalismo occidentale e contro l'"eresia" scismatica introdotta dagli sciiti, considerati veri e propri avversari da annientare. C'era, dunque, anche un sufismo duro e puro che si opponeva ai sofismi intellettualistici fondando la sua spiritualità sull'assoluta fedeltà alla parola coranica e alla prassi sunnita.


Ora, un importante studioso della letteratura persiana e della mistica islamica, docente nelle Università di Bologna e Padova, Carlo Saccone, ci offre una prima versione italiana del Sad Meydân, il libro delle «Cento pianure», un'opera didattica che Ansâri compose nel 1056 tenendo lezioni ai discepoli del suo "convento" di Herat, la città ove anche morì nel 1089 e ove tuttora sorge il suo mausoleo. La struttura è semplice e risponde al genere delle maqamât, ossia delle "dimore" o "stazioni" mistiche nell'itinerario di ascesi e di ascesa verso Dio e il suo mistero. È curioso notare che questo stesso simbolo verrà adottato da santa Teresa d'Avila, la grande mistica spagnola del '500 con le "mansioni" del Castello interiore, il suo capolavoro.


Dopo un'introduzione redazionale, si apre davanti al lettore il panorama delle cento "pianure" o tappe di una sorta di pellegrinaggio interiore che si configura anche come un catechismo dalle molteplici asserzioni tematiche, sviluppate in maniera essenziale e in un persiano letterario. Forse una trentina d'anni dopo, il vecchio Ansâr ormai cieco detterà un parallelo più articolato di questa sua opera: nascerà, così, un testo in arabo noto come Le stazioni dei viandanti che si fonda sul testo primigenio delle «Cento pianure». Queste ultime sono aperte sempre da una citazione coranica e sono scandite da un ritmo triadico del tipo: «Questa pianura è di tre specie» o «a essa appartengono tre categorie». I temi talora si replicano come il timore che si sfrangia in paura, sgomento, terrore, spavento, trepidazione, soggezione, sottomissione, sbigottimento. Interessante è l'attacco che viene sferrato contro la teologia sistematica per il rischio di razionalismo che la sottende.


Così, nella ventinovesima pianura di scena è la "meditazione" che nel vocabolo tecnico arabo usato contiene la radice fkr che è la stessa del "pensiero": essa è proibita quando vuole penetrare negli attributi di Dio, nella sua opera retributiva, nei segreti dell'antropologia, e questi erano proprio i tre nuclei capitali della teologia islamica medievale. Per comprendere appieno questo e altri aspetti della visione conservatrice e censoria di Ansâr è indispensabile la ricca e limpida introduzione del professor Saccone che si rivela una guida preziosa per varcare le soglie di questo mondo ideale e spirituale, così remoto ai nostri occhi eppure così sorprendente. Si è parlato di «Cento pianure»; in realtà esse sono 101 perché, giunti alla centesima tappa, si legge che «queste Cento pianure affondano insieme nella Pianura dell'Amore». Siamo in presenza di una probabile aggiunta del redattore.


Tuttavia, anche qui si è lontani dall'appassionato abbandono nell'abbraccio amoroso con Dio di un Rûmî, di una Râbi.(a o di un al-Ghazâlî. Infatti, in modo sostanziale e secondo lo schema triadico citato si dichiara che i tre gradi dell'Amore sono la verità, l'ebbrezza e il nulla e si prosegue in una sintetica celebrazione della molteplicità di dimore, dell'estensione e della complessità di tale pianura. Siamo ben lontani, ad esempio, dal canto mistico di Rûmî, il fondatore dei dervisci danzanti: «L'Amore è sopraggiunto nelle mie vene e nella mia pelle scorre come il sangue. Esso mi ha svuotato e mi ha riempito dell'Amato. L'Amato ha invaso ogni particella del mio essere. Di me non resta che il nome: tutto il resto è Lui» (Rubâ.(î, n. 325).
Cardinale Gianfranco Ravasi

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