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Tg1 Dialogo puntata 130 - Clima, negli ultimi 15 anni uragani sempre più devastanti

C'è un collegamento tra l'aumento dei fenomeni meteorologici estremi e l'innalzamento delle temperature globali. Lo sostiene una ricerca dell'Accademia nazionale delle Scienze del Regno Unito. Nello studio, il fenomeno del riscaldamento terrestre viene legato a filo doppio con i "super tifoni" che si stanno abbattendo, soprattutto negli ultimi anni, su diverse aree del pianeta. Una concentrazione di disastri meteorologici e ambientali mai verificatasi prima.

In questo quadro, l'uragano Katrina ha rappresentato uno spartiacque. Il tifone, nel 2005, devastò le coste della Louisiana, mettendo in ginocchio la città di New Orleans. I venti registrati allora, che soffiarono fino a 280 chilometri all'ora, accesero un campanello d'allarme nei climatologi. Fu allora che iniziarono alcuni studi per verificare un legame tra quel tipo di fenomeni e l'aumento delle temperature.

Tutto partirebbe dagli oceani: il riscaldamento degli oceani avrebbe fatto aumentare l'evaporazione e, di conseguenza il tasso di umidità dell'aria. Condensa che, pian piano, avrebbe generato un sistema di precipitazioni violente: le così dette "bombe d'acqua". Le stesse che, sia pure con un'intensità notevolmente inferiore rispetto alle aree oceaniche, si sono verificate anche nel Mediterraneo. Il tifone che ha recentemente investito la Sardegna ne sarebbe l'ulteriore testimonianza. Il riscaldamento del mare e degli oceani, in particolare, viene visto come il vero "carburante" degli uragani; altrimenti non si spiegherebbe la violenza, costantemente crescente, delle precipitazioni che negli ultimi due decenni hanno flagellato il globo terrestre. Lo studio prende in esame i 13 uragani più violenti dal 1935. Ebbene, addirittura 6 di essi si sono succeduti 'solamente' dal 1998 ad oggi. Ad avvalorare la tesi dell'Accademia britannica ci sarebbe proprio la tempesta più violenta tra quelle analizzate. E non a caso si tratta dell'ultimo fenomeno in ordine di tempo: il tifone Haiyan, quello che ha devastato le coste delle Filippine appena due settimane fa, con venti a fino a 312 km/h. Subito dietro, l'uragano Camilla (l'unico 'datato' della classifica) che nel 1969 investì lo stato americano del Mississippi con venti a 304 km/h. Ben 5, invece, gli eventi (tra tifoni, uragani e tornado) con venti dai 270 ai 300 chilometri all'ora, che si sono concentrati tra il 1998 e il 2012: Zeb (288 km/h di potenza) che colpì per primo il sud-est asiatico nel 2006; il ciclone Monica (288 km/h) registrato in Australia sempre nel 2006; l'uragano Dean (280 km/h) che nel 2007 devastò il Messico; l'uragano Megi (288 km/h) che nel 2012 colpì ancora le Filippine; il tifone Bopha (280 km/h) che nel 2012 si accanì sempre sulle Filippine.

Ma non tutti sono d'accordo con la ricostruzione dell'Accademia. Almeno per quel che riguarda l'intervallo temporale. Secondo l'Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change, il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico), infatti, si starebbe assistendo ad un aumento dell'intensità delle manifestazioni cicloniche nel Nord Ataltico e nel Nord Pacifico fin dal lontano 1970. In particolare, fenomeni di particolare violenza, sono stati osservati nel Nord Pacifico occidentale, a partire da quel periodo, proprio dove si trovano le Filippine. Una tesi, quest'ultima, avvalorata anche da un rapporto del MIT (Massachusetts Institute of Technology) pubblicato all'inizio di quest'anno negli atti della National Academy of Sciences.

Diverse scuole di pensiero scientifico si confrontano anche sull'aumento del numero degli uragani, fenomeno che non sarebbe suffragato da una casistica sufficiente a dimostrarne la veridicità. Fatto sta, però, che la crescita dell'intensità dei fenomeni sia un dato ormai acquisito e che la correlazione tra questa e l'aumento della temperatura globale non possa essere messo in discussione.

Peccato che, nel corso della Conferenza Onu sul clima, in corso a Varsavia, sia emersa una differente visione dell'emergenza uragani tra Paesi ricchi e poveri: se da una parte, infatti, i primi manifestano una riluttanza nel fissare obiettivi più ambiziosi e cercare una effettiva riduzione delle emissioni di gas a effetto serra, i secondi chiedono politiche più decise ed efficaci. Anche perché, nell'empasse generale, i Paesi più poveri del pianeta continuano a pagare un prezzo altissimo (in termini soprattutto di vite umane) ai cambiamenti climatici.(Repubblica)

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