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Alan Friedman: Trump, Salvini, e l'invasione degli immigriti

di Alan Friedman

Un’onda di esseri umani attraversa i deserti ostili dell’Africa, le città martoriate del Medio Oriente, e si infrange sulle coste europee. Fuggono da guerre, terrorismo, feroci dittature e carestie, si mescolano a chi scappa dalla povertà, alla ricerca di un futuro migliore: è un fenomeno che coinvolge centinaia di milioni di persone su scala planetaria, un esodo di proporzioni enormi, inesorabile come un movimento della crosta terrestre.

Una colossale placca tettonica di esseri umani. La crisi globale dei migranti, e l’ostilità crescente che suscitano in una parte della popolazione che abita i territori dove costoro si riversano, domina il dibattito politico in numerosi Paesi. Forse è la più rilevante questione sociale che l’umanità si trova oggi ad affrontare: un gigantesco affresco di miseria e sofferenza, un tema che viene manipolato da demagoghi privi di scrupoli in mezzo Occidente.

La crisi imperversa in Europa da più di un decennio, ormai, anche se sull’Italia gli effetti negativi si sono abbattuti con maggiore forza negli anni che vanno dal 2010 al 2016. Da allora, per il Belpaese il problema si è drasticamente ridimensionato. Anche se per l’Italia, come per buona parte del Vecchio Continente, i flussi sono diminuiti, non mancano leader politici di estrema destra che continuano a battere su quel tasto, sostenendo che stiamo subendo una vera e propria invasione nemica. I loro attacchi sono risultati così convincenti che l’argomento immigrati ha una rilevanza fondamentale nelle campagne elettorali nazionali di quasi tutta l’Europa.

È il nodo centrale, il più importante di tutti. La percezione di uno stato di crisi permanente ha eclissato la realtà concreta dei fatti. La paura dello straniero è stata marchiata a fuoco nel cervello dei fan degli estremisti e dei politici dell’ultradestra dei diversi Stati del primo mondo. Gli immigrati vengono visti sempre secondo la stessa ottica distorta, siano essi clandestini, richiedenti asilo o lavoratori regolari, uomini e donne che si spaccano la schiena e pagano le tasse ma che per puro caso sono nati in Africa. Gli immigrati: è tutta colpa loro. Sono una minaccia. Anzi, la minaccia che incombe sulla civiltà europea, sulla cristianità. Un mondo di musulmani. Di radicali islamici, di terroristi. Tutti, senza eccezione: stupratori e assassini. Brutta gente che viene a rubarci il lavoro, a violentare le nostre figlie e ad arraffare i nostri soldi. Criminali o, nella migliore delle ipotesi, parassiti piombati qui da chissà dove, che non condividono i nostri valori e anzi rappresentano una terribile minaccia per il nostro stile di vita, la nostra stessa esistenza, la nostra identità razziale.

Questo, in termini piuttosto crudi e diretti, è il succo della retorica che è stata diffusa con efficacia negli ultimi anni, da Donald Trump negli Stati Uniti; Matteo Salvini in Italia; Marine Le Pen in Francia; Viktor Orbán in Ungheria; Geert Wilders in Olanda; dai neonazisti dell’AfD in Germania, come da decine di demagoghi di destra tanto a livello nazionale quanto locale, in quasi tutte le più grandi democrazie del mondo occidentale. Negli usa, un presidente razzista attacca con regolarità neri, latini, musulmani e stranieri in generale. Tiene rinchiuse migliaia di bambini migranti in gabbie lungo il confine tra Texas e Messico. Permette che questi vengano separati dalle loro famiglie, trattati come bestie, alcuni vengono abusati sessualmente e un sempre crescente numero muore durante la custodia americana. Ordina violente irruzioni nelle case di immigrati onesti e minaccia di espellerli fuori dal Paese, e stiamo parlando di gente che vive negli Stati Uniti da dieci o quindici anni. Il messaggio non potrebbe essere più cristallino – gli Stati Uniti hanno voltato le spalle all’esortazione incisa sul piedistallo della Statua della Libertà: «…Datemi i vostri stanchi, i vostri poveri, le vostre masse infreddolite…». Pur attraendo stranieri altamente qualificati per l’industria 4.0 più di qualsiasi altro Paese al mondo, l’America, sotto il regno di Donald Trump, chiude le porte in faccia agli immigrati, fino a progettare di costruire muri fisici per tenerli fuori (…) La trovata di Salvini è più low cost. A lui piace fermare barche piene di disgraziati per impedire che attracchino nei porti italiani. Gioca con la vita di uomini, donne e bambini alla deriva nel Mediterraneo a bordo di imbarcazioni di salvataggio, solo per tenere il punto, per ottenere like su Facebook. È il suo numero, il pezzo forte del suo repertorio (...) L’immigrazione. Ma come stanno davvero le cose? È ora di separare i fatti dalla fiction e individuare la posizione che l’Italia occupa nel quadro globale ed europeo. Stiamo fronteggiando un’invasione? Esiste davvero una crisi? Dobbiamo tirare fuori i dati e le cifre reali, dimenticando la propaganda distorta e le falsità che siamo fin troppo abituati a vederci propinare dai leader del nostro governo attuale (...)

Nonostante la propaganda politica, i numeri dei flussi sono in netto calo dal 2017. Il prezzo umano pagato per questa “serenità” resta però estremamente elevato, ed è bene tenerlo a mente. I campi di detenzione in Libia somigliano molto da vicino ai lager nazisti, ma forse preferiamo non ricordarlo. L’onu afferma che stiamo assistendo oggi al maggior numero di popolazioni sfollate dalla Seconda guerra mondiale, rilevando come al mondo ci siano 68,5 milioni di persone che sono state costrette a lasciare le proprie abitazioni a causa di persecuzioni, conflitti e violenze. Di queste, 40 milioni sono dislocate all’interno del proprio Paese; 25 milioni, di cui più della metà minorenni, sono in possesso dello status di rifugiato, mentre un altro milione e mezzo di persone sta aspettando una risposta alla richiesta di protezione. Numeri ingenti, che sembrerebbero fornire delle argomentazioni a quanti sostengono: «Eh, ma non li possiamo accogliere tutti noi». Difatti no, non lo facciamo, nemmeno lontanamente: l’85 per cento di questi 25 milioni di rifugiati si trova in Paesi in via di sviluppo. La Turchia, da sola, ne ospita 3 milioni e mezzo, più di tutta l’Europa messa insieme, che ne ha accolti 2,6 milioni (lo 0,5 per cento della popolazione). Il Libano ha invece il più alto tasso di rifugiati in rapporto alla popolazione: uno ogni sei abitanti; numeri simili si trovano in Giordania. È interessante notare come oltre due terzi dei rifugiati (il 68 per cento) provenga da soli cinque Paesi. A guidare la triste classifica c’è ovviamente la Siria, dilaniata dal 2011 da un sanguinoso conflitto che ha causato la morte di centinaia di migliaia di persone. Segue l’Afghanistan, dove quasi vent’anni di guerra non hanno sradicato i talebani, mentre gli attentati e le violenze contro i civili continuano nonostante sul Paese si siano spenti i riflettori dei media; nel Sudan del Sud ancora si muore malgrado l’accordo di pace tra il governo e i ribelli. Più di un milione di appartenenti alla minoranza etnica Rohingya sono invece scappati dalle persecuzioni in Myanmar, trovando rifugio in Bangladesh, Indonesia, Malesia. E poi c’è il caso Somalia: uno “Stato fallito” dove chi può fugge dalle violenze, dal terrorismo di Al-Shabaab, dalle carestie.

Spesso si tende a etichettare gli africani unicamente come migranti economici: se questo può essere spesso vero per chi viene da Paesi più dinamici come il Senegal, il Ghana, la Tunisia, l’Egitto o il Marocco, ci sono diverse altre zone, accanto ai già citati Sudan del Sud e Somalia, da cui si scappa per un rischio di vita concreto: dall’Eritrea del brutale dittatore Isaias Afewerki, alle aree infestate dai terroristi jihadisti di Boko Haram, fino ai conflitti armati nella Repubblica centrafricana e nella Repubblica democratica del Congo. Eppure, come mostrano i dati onu, la stragrande maggioranza delle persone, in Africa come nel resto del mondo, cerca asilo nei Paesi vicini al proprio. Mentre il Libano, la Giordania e la Turchia hanno aperto le loro frontiere ai profughi siriani, l’Uganda ha accolto oltre un milione di rifugiati dal Sudan del Sud e dalla Repubblica democratica del Congo, e l’Etiopia ne ospita altrettanti, fuggiti anch’essi dal Sudan del Sud, ma anche da Somalia ed Eritrea.

Fin qui, abbiamo parlato di rifugiati, ovvero di persone obbligate a lasciare la propria terra. Passando ad analizzare i numeri dei migranti, intesi come individui che scelgono liberamente di lasciare il proprio Paese in cerca di un futuro migliore dal punto di vista economico, sociale o culturale, le cifre lievitano notevolmente, ma non mutano le dinamiche: anche loro tendono a scegliere Paesi all’interno della propria area di riferimento. Tradotto: non vogliono venire tutti da noi.

Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (iom), nel 2017 c’erano quasi 260 milioni di persone che risiedevano in un Paese diverso da quello di nascita, il 3,4 per cento della popolazione mondiale. Una percentuale che non si discosta di molto da quelle che si sono osservate nel secolo scorso: erano il 2,4 per cento nel 1960 e il 2,1 nel 1980. In una recente pubblicazione dell’ispi, Istituto per gli studi di politica internazionale, la demografa francese Marie-Laurence Flahaux mostra come, negli ultimi venticinque anni, la quota di migranti internazionali con passaporto africano sia aumentata in numeri assoluti, ma addirittura diminuita se rapportata alla popolazione.

Meno del 3 per cento dei cittadini africani vive in un Paese diverso da quello d’origine: un dato più basso rispetto alla media mondiale che abbiamo appena visto e sostanzialmente stabile dal 1990. Flahaux rileva inoltre come la schiacciante maggioranza delle migrazioni si svolga all’interno del territorio africano. E ancora: quando si afferma che la “soluzione” sia quella di «aiutarli a casa loro», è bene sapere che sono proprio i cittadini relativamente più istruiti e benestanti dei Paesi con il prodotto interno lordo pro capite più consistente, con livelli più elevati di urbanizzazione e in una fase più avanzata di transizione demografica (ovvero quei Paesi che hanno una speranza di vita più alta e tassi di fertilità in calo) a osservare le percentuali più importanti di migrazione in Europa o altrove in Occidente. (…)

La realtà sugli immigrati è molto diversa dalla propaganda. Per alcuni lettori sarà forse uno shock scoprire che gli immigrati, rifugiati inclusi, si rivelano spesso una preziosa fonte di crescita economica, una volta integrati e accolti nella società. Apportano un contributo estremamente positivo all’economia italiana, e questo è un fatto. Per quanto siano demonizzati da politicanti e capipopolo, gli stranieri che vivono in Italia aiutano la crescita del pil, concorrono a finanziare il sistema pensionistico, rimpinguano i forzieri del Fisco. L’impatto economico e fiscale dell’immigrazione in Italia è più che positivo: i cinque milioni di stranieri regolari producono quasi il 9 per cento del pil e versano ogni anno oltre 8 miliardi di contributi sociali ricevendone indietro solo 3 in prestazioni, con un saldo netto di circa 5 miliardi per le casse dell’inps. Avranno un ruolo fondamentale nel finanziamento di quelle che saranno le pensioni dei nostri figli e nipoti, nel Paese con il tasso di natalità più basso e il più alto numero di anziani di tutto l’Occidente: un problema strutturale, impossibile da risolvere nel breve termine anche con le politiche di sostegno alla famiglia più vigorose (che certo andrebbero introdotte, prendendo esempio dalla Francia). E ancora, mentre un recente rapporto dell’Osservatorio europeo sulla sicurezza rileva come quasi l’80 per cento degli italiani è convinto che la criminalità sia cresciuta a livello nazionale, e lega questo aumento a quello, parallelo, dell’immigrazione, i dati smentiscono questa percezione.

Negli ultimi dieci anni, tutti i principali indicatori con cui misuriamo la criminalità sono diminuiti. Sono calati gli omicidi, le rapine e le violenze sessuali, mentre è sostanzialmente invariato il numero dei furti. I numeri mostrano anche che gli stranieri residenti regolarmente nel Paese commettono reati con una frequenza sovrapponibile a quella degli italiani (...) In Italia, in assenza di una reale invasione di migranti, bisognerebbe puntare a regolarizzare gli stranieri attivi, in modo che paghino le tasse invece di lavorare in nero. Dopo decenni passati a fare gli struzzi, è ora di fare i conti con il fatto che ci sono persone di etnie diverse, con un colore della pelle diverso, che fanno parte integrante di una nazione di sessanta milioni di persone. E faremmo meglio ad accoglierli, educarli, istruirli, far sì che diventino parte integrante della società, invece di temerli e disprezzarli. La sfida si chiama integrazione, non immigrazione (...)

Alan Friedman 

(Copyright. Il testo, già pubblicato da Famiglia cristiana, è tratto dal libro di Alan Friedman Questa non è l’Italia, Newton Compton Editori (Traduzione dall’inglese di: Sandro Ristori Pagine: 320 Prezzo: 12,90 e-book: 7,99).  

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