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Migranti. Hanan e i suoi 5 figli: la fuga dalla Siria, il Libano. E infine l'Italia

Hanno cinque figli, sono tra le famiglie siriane arrivate in Italia attraverso i corridoi umanitari

Credit Foto - Avvenire

Da quasi quattro anni, da quando sono scappati dalla loro terra, la Siria, hanno condotto una vita confinati tra quattro mura a Beirut, eppure dicono: «Noi siamo stati fortunati». Sembrava di vedere un lieve sorriso sulle labbra di Hanan mentre qualcuno aveva appena gettato dell’acqua sulle scale del palazzo, dove i fili elettrici sono tutti a vista e il rischio di folgorazione è altissimo. I corrimano non esistono. I muri esterni sono scrostati.

Hanan abitava al quarto piano con suo marito Fadel, in un caseggiato popolare nella periferia Nordest di Beirut. Hanno cinque figli, ancora piccoli, due sono malati di diabete, tre sono sordi da un orecchio e sono tra le famiglie siriane appena arrivate in Italia attraverso i corridoi umanitari promossi da Comunità di Sant'Egidio, Federazione delle chiese evangeliche in Italia e Tavola Valdese.

Oggi i corridoi umanitari rappresentano una delle poche possibilità di arrivo legale in Europa: alla base vi è il rilascio di “visti umanitari” ai sensi dell’art. 25 del Trattato sui visti di Schengen. Oltre al corridoio dal Libano, attraverso un accordo tra Conferenza episcopale italiana e Comunità di Sant'Egidio, ne è stato aperto un altro dal Corno d’Africa che ha portato altre 600 persone in Italia. Di positivo, c’è che pure Francia, Andorra e Belgio hanno accettato di replicare il modello italiano, diventando Paesi d’accoglienza e permettendo dal 2016 a oggi a più di 2.100 persone di raggiungere ed essere accolti in Europa modo legale e sicuro.

Altroché “disabilità invisibile”: la sordità per i piccoli Dana e Kamal è stata la conseguenza diretta di una quotidianità sotto le bombe durata 5 anni, che non ha lasciato alla famiglia altra via d'uscita che migrare verso il vicino Libano. In uno Stato che è esteso quanto l’Abruzzo, l’Onu ha stimato la presenza di circa un milione di profughi siriani, su una popolazione totale di 4,5 milioni di persone; in altre parole è il Paese con la più alta percentuale al mondo di rifugiati per abitante. E le tensioni negli ultimi mesi non sono mancate. Inoltre, poiché in Libano la Convenzione di Ginevra sul diritto all'asilo non è riconosciuta, chi non ha un permesso regolare per risiedere nel Paese dei cedri è costretto a vivere in un limbo di illegalità.

La casa di Hanan e Fadel a Beirut era essenziale in una parola: le pareti sono vuote, c’è solo un orologio da muro e un vecchio televisore, un boccione per l’acqua all'ingresso viene utilizzato anche per preparare il caffè e attorno al tavolino basso non mancano i cuscini su cui accomodarsi. Le parole di Fadel, intervallate da sbuffi di fumo di sigaretta, raccontano di “una vita come le altre” nella città di Hasaka, al confine nord orientale con l’Iraq, che la famiglia mai avrebbe voluto lasciare. «All’inizio della guerra ci spostavamo in campagna a casa della nonna per trovare riparo. Col passare del tempo non è stato più possibile farlo. Mia madre però era sola e anziana e non ce la siamo sentiti di abbandonarla». Una resilienza familiare che è andata avanti sino alla morte della nonna e soprattutto sino a quando la corsa all’insulina per i due figli diabetici nelle strade siriane è diventata quasi impossibile. È stato allora nel 2016 che Fadel e Hanan hanno deciso di seguire l’esodo di tanti loro amici e familiari che hanno avuto meno fortuna di loro: “Il momento più brutto per noi è stato alla frontiera siriana-libanese. Siamo stati rinchiusi, con altre 20 persone in una stanza minuscola, completamente al buio. Però dobbiamo ritenerci fortunati, altri nostri amici hanno perso figli, fratelli, nipoti e genitori: noi siamo ancora insieme, siamo uniti».

Niente cibo, poca acqua per oltre 48 ore, prima che il nipote riuscisse nella trattativa coi trafficanti di uomini a liberarli tutti: è costato 300 dollari il lasciapassare per Beirut dove finora si erano arrangiati a sopravvivere in questo caseggiato popolare: «Siamo preoccupati per i nostri figli: vorremmo che potessero giocare, studiare». Nei 3 anni trascorsi nella capitale libanese nessuno di loro è andato a scuola. «Mi sento in colpa perché chiedo loro tutti i giorni di stare in silenzio, di non fare rumore e di non disturbare» aveva aggiunto con un filo di voce la madre. «E so che invece avrebbero tutto il diritto di giocare all’aria aperta e divertirsi con i loro amici, esattamente come accadeva a casa nostra». A Beirut Fadel, che in Siria era proprietario di una piccola impresa edile, cercava di raggranellare soldi proponendosi come imbianchino, mentre sua moglie si occupava dell’educazione dei ragazzi. Alla domanda su cosa mancasse loro della vita in Siria, il più piccolo rispose soltanto: «Vorrei giocare a pallone coi miei cugini», mentre la figlia di mezzo tirava fuori alcuni modellini di abiti creati da lei, dimostrando così che la bellezza e la fantasia avevano continuato a salvare il loro (e il nostro) futuro, e ora che finalmente grazie ai corridoi umanitari hanno una casa e godono di diritti come l'istruzione e l'accesso alle cure mediche, possono tornare tutti assieme a respirare speranza.

«Voi siete venuti con i corridoi umanitari, che sono una grande alternativa all'inferno dei campi in cui avete vissuto per troppi mesi». All'aeroporto di Fiumicino con queste parole il presidente della Comunità di Sant'Egidio, Marco Impagliazzo ha dato il benvenuto a Fadel, Hanan e loro figli, che fanno parte dell'ultimo gruppo di 91 profughi siriani arrivato in Italia in aereo dal Libano. «Noi oggi con i corridoi umanitari vogliamo darvi un futuro buono, legale e di integrazione nel nostro Paese, in Italia».

L'arrivo di questi ultimi 91 profughi siriani, peraltro, coincide con la consegna del premio Nansen per i rifugiati dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. E nel frattempo si guarda al futuro con l'invito che viene rinnovato ancora una volta al governo italiano: «Dobbiamo lavorare assieme affinché si aprano dei corridoi umanitari europei, in particolare dalla Libia» ha sottolineato Luca Maria Negro, presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI).

*Nell'articolo i nomi reali non sono stati utilizzati per proteggere la privacy delle persone intervistate

Ilaria Solaini - Avvenire



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