Seconda domenica di Quaresima: Impariamo ad affrontare la sofferenza di ogni giorno
di Antonio Tarallo
Seconda domenica di Quaresima
Estratto da Cap. IV
“Polvere di terra
assapora
nella bocca orante,
sapore di melma
nella gola,
paura di affrontare la Morte;
eppure così doveva essere
per risplendere poi
della Luce eterna.
Di una luce
che abbaglia,
che straccia ogni oscurità
più oscura;
che stronca, spiazza
il Buio stesso, intero.
Lo rende inerme,
innocuo,
vaporoso.
Stracciato il vestito
addosso,
già comprende che così
sarà fra poco.
“A cosa servono
questi stracci
per riscoprire un corpo
che vuole perdere
per sempre l’anima,
acquistando la
Libertà piena?”:
Si straccia i panni.
Si toglie il fardello
imposto della Umana natura
che non comprende neppure
più la bellezza del volo
di un uccello.
E lì, allora, in quel solitario
luogo,
avviene che un piccolo passero
della notte
si appoggia a un ramo
a guardare il martirio
di quest’uomo.
Canta un poco.
Un poco.
E le stelle allora rispondono
intonando un canto.
E così Cristo
già non si sente più solo”.
(Pagg. 32/33)
(Da “Poema della Croce” di A. Tarallo, Edizioni Ares, 2017)
L’oscurità della sofferenza. Il malessere fisico e/o intimo, ossia l’eterna lotta nella vita. Quella di ogni giorno, quella nel “dovunque” di ogni possibile spazio geografico. Infatti, non c’è credo, non c’è colore, non c’è idioma che possa dividerci in merito a questo “comun denominatore” presente – chi in un modo, chi in un altro – in ogni Uomo. E l’oscura oscurità della malattia. Non si comprende. La si sente, questo sì. Avviene. Accade, ed è in quell’istante che si addensano domande e dubbi. I dubbi più profondi. Toccano le viscere, i sensi, l’intelletto e soprattutto il cuore. Ed è in questi casi che ci sente “inermi, innocui, vaporosi”. Immobili davanti a questa. E di qualsiasi natura possa essere, come non sottolineare che il Mondo di Oggi cerchi di fare del tutto per scansarla. E quando l’accoglie, lo fa – il più delle volte – per darla in pasto ai talk-show dall’audience facile. La sofferenza, non è ammessa, e ancor di più la debolezza che essa provoca, nel corpo e nello spirito. Viviamo in quel divario così assurdo dove – più ci si scontra con questa sofferenza – più si cerca di anelare al “perfetto”, all’ “immortale”. Impossibile, nel Mondo contemporaneo, mostrare le proprie fragilità. Le pubblicità ce lo dimostrano. Il Mondo non vuole guardarla, un po’ per un fattore – più che condivisibile – di paura di potersi scoprire-riscoprire in quello stesso dolore: guardarsi allo specchio fa sempre paura. E fa male. Ma è necessario ribadire che proprio per quella sofferenza passa molte volte la salvezza. Difficile accettarlo. Ancor più difficile viverlo, visto che il tutto sembra così assurdo. E tutti, “nessuno escluso” (direbbe il buon Brecht), siamo chiamati ogni giorno a vivere questa “Passione”.
E sono tante, di diversa natura. E penso, in fondo, che sia in una certa misura sbagliata la frase divenuta ormai popolare: “Quella persona, che Croce pesante, porta addosso!” E, magari, osservando qualcun altro: “Quell’altro, più piccola!”. Come se si dovessero misurare col metro (le grandi), col centimetro (quelle piccole). Ma spesso ci dimentichiamo di quella soggettività, che è alla base dell’Umano. Ognuno è unico. Ognuno “sente” quella croce , in maniera diversa. Ed è così che vengono in mente le migliaia di donne che hanno abortito, o – ad esempio – i giovani in cerca di lavoro, i disoccupati padri di famiglia, gli ammalati, i poveri. Rino Gaetano, nella sua famosa canzone, “Ma il cielo è sempre più blu” ci offre uno scenario abbastanza concreto di questo vasto panorama. Sì, ognuno vive la propria Croce, che non è piantata lontano sulla collina del Golgota. E’ quotidiana, è in “pianura”, è posta nell’ “orizzontale” della Vita che conduciamo, percorrendo tutti questi momenti di morte, che giornalmente viviamo. Viviamo, ma che poi dovremmo sempre impegnarci a far divenire momenti di Resurrezione, di crescita. E l’accettazione/rinascita porta proprio a questa crescita. E, molte volte, fa paura anche essere vicini al dolore, in ogni sua espressione. Così come fa paura, ad esempio, fermarsi un attimo a guardare un povero, e magari parlare con lui. Nella mente scattano diversi fattori psicologici che portano tutti a una unica soluzione: procedere avanti, non sostare. Continuare il cammino. Quella condizione di dolore è così lontana da noi che non richiama la nostra attenzione. L’invisibilità degli ultimi, dei sofferenti. Non è importante riflettere cosa abbia portato quell’Essere Umano a trovarsi in quella condizione. Eppure, se solo ci pensassimo, se solo potessimo sviluppare la coscienza della precarietà della Vita, di “quell’istante” che tutto può cambiare, potrebbe spingere noi tutti a condurre la vita stessa in una condizione più “umana”, più “fraterna”.
Antonio Tarallo
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