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Un monaco in bicicletta, ricordo di Felice Gimondi

Felice Gimondi era un po’ un’icona di questo ciclismo. L’ultimo interprete di questo ciclismo antico

Credit Foto - Vatican News

Risalendo alle origini del monachesimo spesso i più sono indotti a pensare che la radice mònos stia ad indicare uno stato di singolarità. Uno nella separazione, nell’isolamento dal mondo, nello stile di vita, un Uno che pur mantiene la sua singolarità condividendola nel cenobio con altrettanti “Uni” a lui uguali. Ma la radice mònos piuttosto afferisce all’Uno nel senso dell’uno intrinseco, del riunificato, di colui che cerca e trova infine la sua unità esistenziale.

L’uomo che diviene persona, cioè maschera, nella relazione col mondo finisce con scindere la sua identità tra corpo, anima e spirito, e anche le tre al loro interno. Il male che tanto ci scandalizza ed interpella, quando lo disaminiamo da vicino, altro non è che il portato di questa scissione. Si pensi alla sempre più frequente conclamazione del corpo come variabile che di per sé definirebbe l’essere, o alla scissione della psiche che oggi chiamiamo nevrosi. Scissioni contro Unità.

Ognuno di noi tende irrimediabilmente nella vita ad essere più “persone”, variando tonalità e spesso contenuti a seconda dell’interlocutore del caso, in un dannato carosello di roles play. E l’insincerità verso l’altro non è mai così grave quanto la non verità verso se stessi.

La prima è spesso prodromica alla seconda. Il mònos è invece lo sforzo di ricondurre ad unità tutto il proprio essere. Non già, come spesso si pensa, attraverso l’autocontrollo della propria persona in uno stile di vita coercizzante, ma attraverso la ricerca — che certo implica una buona dose di coraggio — della verità più profonda dell’Io, del rapporto di necessarietà e complementarità che lega corpo, anima e spirito. Ricerca di quanto la psiche condizioni il corpo (ipotesi largamente accettata nello psicologismo corrente), ma anche di come il corpo influenzi in modo decisivo l’anima (ipotesi un po’ meno accolta con favore per i sacrifici che comporta). Il mònos è dunque colui che si avventura con coraggio alla ricerca della più intima verità del suo essere, sapendo che solo attraverso questa ricerca può anelare alla perfezione, che non è altro che la ricerca del senso della propria esistenza.

Per il cristiano ovviamente l’approdo sarà la perfezione di vita cristiana, la santificazione. Ma letto in questi termini monachesimo è innanzitutto categoria antropologica oltre che religiosa: non a caso l’esperienza monastica non è prerogativa di un solo ambiente culturale o religioso, ma è tracciabile in ogni dove. Su questa dimensione, e sul conseguente “monachesimo anonimo” ha scritto pagine molto belle e sempre attuali Raimon Pannikar. Ad ogni uomo è dunque dato essere “monos”, indifferentemente dalla sua cultura e credenze. Ed è curioso ed interessante seguire come si declini questa vocazione al monos nelle esperienze di vita di alcuni uomini e donne. E anche come spesso si realizzi spontaneamente, senza profonde riflessioni o grandi sforzi della volontà, ma naturalmente come deposito di un’antica saggezza innata. E anche come si esprima essenzialmente nell’adozione di un esercizio, di una dote, di un talento, di un’arte.

Non fine a se stesso, ma perché quell’esercizio, quel talento sono la leva attraverso cui si compie la riunificazione in se stesso, di se stesso. Succede spesso nell’arte: mi sovviene l’immagine di Glenn Gould che è un tutt’uno col suo pianoforte, lo accarezza, lo controcanta, si integra fisicamente col suo strumento che sembra anch’esso parte della riunificazione, come fosse una protesi del suo corpo.

E succede anche nello sport, in uno sport in particolare, il ciclismo. Tutta questa riflessione è suscitata difatti dalla sta, non si celebra, non si circonda di fotomodelle, non esibisce tatuaggi o pettinature eccentriche, rimane nei ranghi di una normalità di vita, desiderata e apprezzata.

Felice Gimondi
era un po’ un’icona di questo ciclismo. L’ultimo interprete di questo ciclismo antico. Parco di parole, sussurrate con le labbra sempre strette che ne rendevano spesso difficile la comprensione, concedeva interviste più per cortesia che necessità, non rideva, al massimo sorrideva, manteneva la stessa espressione per la gioia e il disappunto. Non era un simpaticone come Adorni, o un artista del pedale come Motta. Non era uno scalatore temibile come Ocana e non era certo un velocista come Basso o Zandegù. Quello che più impressionava della sua pedalata era la elegante costanza: era un passista sui pedali come nella vita. La sua era potenza di determinazione non di estro.

Come Gould col piano era un tutt’uno col suo velocipede. Era il più forte in una stagione di forti. L’allineamento irripetibile di una costellazione di stelle straordinarie: Adorni, Motta, Zilioli, Bitossi, Dancelli, Taccone, Basso, Zandegù, Balmamion, Panizza, Aldo Moser. Vinse la gara più ambita di tutte al primo anno di professionismo, capitano per sbaglio. Avrebbe vinto ancora di più se non avesse incrociato negli stessi anni, sulla stessa strada il più forte di tutti i tempi, il Cannibale fiammingo.

Ma anche davanti ad Eddy Merckx non si arrese: continuò caparbiamente a sfidarlo pur nell’onesta consapevolezza che fosse più forte. Ma se Felice Gimondi è entrato così prepotentemente nel cuore degli italiani, ancor più che per le gioie sportive che ha regalato, è stato per la naturale proiezione ideale che la sua figura ha esercitato sull’italiano medio degli anni Sessanta. Laborioso, determinato, coerente, desideroso di emanciparsi senza scorciatoie, senza pretese, senza sgarri, con sacrificio, sobrio, mite e — diciamolo, perché no? — credente, devoto, come lo è stato Felice Gimondi.

Se oggi questa scomparsa ci rattrista tanto, non è solo per il campione, per l’uomo, ma per il tempo di cui è stato fedele icona. A chi quegli anni ha vissuto rimane uno struggente senso di malinconia e rimpianto per un mondo più semplice e più buono. Spesso i dotti ci ricordano che ai passaggi epocali sono stati i monaci a salvare la civiltà. Ci vorrebbe un altro Felice Gimondi. (Roberto Cetera - Osservatore Romano)



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