Don Felice Accrocca
Sminare i cuori
È vero! Finché non avremo sminato il nostro cuore saremo sempre pronti a esplodere, perché è dall'interno, cioè dal cuore dell'uomo, che nascono cattiverie e immoralità. In altre parole, se non c'è pace tra noi molto spesso è perché non c'è pace dentro di noi. Siamo noi, in tante occasioni, a essere in guerra contro il mondo intero, perché in guerra con noi stessi, incapaci di volerci bene, di accettarci per quel che siamo e per quel che abbiamo. Anche Francesco provò un tempo tale inquietudine, che lo spinse continuamente a nuove imprese, nel tentativo di conquistare altri titoli e una diversa posizione. Non gli mancava nulla, molti lo invidiavano per privilegi di cui godeva, eppure quanto aveva non gli bastava: desiderava altro ancora. Quando però conobbe Cristo, la sua inquietudine cessò ed egli conquistò una pace prima sconosciuta, che non venne mai meno.
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Una pace che diffondeva su quanti entravano in contatto con lui. È per questo motivo che lui e i suoi frati promisero, in un primo tempo, di ricercare «lo spirito del Signore», il quale spirito «vuole che la carne mortificata e disprezzata, vile e abbietta e obbrobriosa, e ricerca l'umiltà e la pazienza, la pura semplicità e la vera pace dello spirito, e sempre desidera sopra ogni cosa il divino timore e la divina sapienza e il divino amore del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Rnb XVII,14-16). In seguito, s'impegnarono a desiderare di avere «lo Spirito del Signore e la sua santa operazione», che doveva manifestarsi in alcune opere essenziali: la preghiera di un cuore puro, cioè non superbo, vanaglorioso o maldicente; l'umiltà, intesa come conoscenza di sé, dei propri peccati e delle proprie abiezioni; la pazienza nelle persecuzioni e nelle infermità; l'amore per i nemici, per coloro che ci calunniano, ci riprendono e ci fanno soffrire (cf. Rb X,8-10).
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Ogni anno per un mese intero (gennaio) siamo invitati a riflettere sul tema della pace: non possiamo ridurre il tutto a un discorso intimistico, dimenticando le potenti trame demoniache che cercano di mantenere il mondo in stato di guerra, perché dalle guerre pochi traggono enormi vantaggi, ma neppure possiamo dimenticare i depositi di polvere pirica che sono dentro di noi, pronti a esplodere. Dobbiamo disinnescarli prima.
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Guardiamo all'esperienza di Francesco: egli aveva circa 16 anni quando Assisi piombò in un clima di guerra civile. Tra il 1198 e il 1210, infatti, la città fu funestata dallo scontro di due fazioni in lotta tra loro, a motivo di una diversa concezione dell'esercizio del potere. Gli homines populi (mercanti, artigiani, notai), con i quali era schierata la famiglia di Francesco, si riconoscevano nel Comune, mentre i boni homines (che basavano la loro ricchezza prevalentemente su cespiti fondiari e con i quali era schierata la famiglia di Chiara) apparivano legati ancora a una logica feudale. Nel 1198 gli homines populi conquistarono la rocca della città e bandirono alcune consorterie familiari della parte avversa, che finirono per riparare a Perugia (fu così che Chiara, ancora bambina, dovette prendere la via dell'esilio).
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Qualche anno dopo i fuoriusciti, aiutati dai perugini, si presero la rivincita nella famosa battaglia di Collestrada, nella quale combatté anche Francesco, che fu fatto prigioniero. Proprio in quegli anni di guerra civile egli incontrò il Signore e ne nacque un uomo nuovo, un uomo di pace, che alla lancia e alla spada preferì la Parola di Dio, più tagliente di una spada a doppio taglio (cf. Eb 4,12).
<bR><bR>“Salute e pace” egli augurava nelle sue lettere; una salute e una pace non solo del corpo, ma ancor più dello spirito. Sapeva bene, infatti, che fintanto che non disinnesca gli arsenali che gli covano dentro, l'uomo resta una polveriera pronta a esplodere o un vulcano prossimo all'eruzione; solo quando si apre a Dio egli “ricerca l'umiltà e la pazienza, la pura semplicità e la vera pace dello spirito” (Rnb XVII,15). Ognuno di noi può ardere: di amor di Dio o di rabbia. L'una condizione esclude l'altra: quale di esse ci appartiene?
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