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PAOLO VI SANTO PERCHE' TESTIMONE DELL'AMORE IL PAPA DICHIARA SANTI MONTINI E ROMERO 

Il 14 ottobre la Chiesa riconosce solennemente la santità di Paolo VI. Lo fa a quarant’anni dalla sua morte

di Domenico Paoletti
Credit Foto - ANSA/GIUSEPPE LAMI

Il 14 ottobre la Chiesa riconosce solennemente la santità di Paolo VI. Lo fa a quarant’anni dalla sua morte, segno che occorre del tempo prima che una persona trovi il suo vero volto nella storia. Tanto incompreso lungo gli anni della sua vita terrena quanto più oggi risplende della sua bellezza cristiana, Paolo VI è santo perché la sua vita è stata una testimonianza resa alla verità dell’amore.

L’amore ha ispirato tutta la sua vita e i suoi insegnamenti: l’amore a Cristo, l’amore alla Chiesa e alla verità, la passione per l’uomo. Il suo è un pressante invito a suscitare “la convinzione della fratellanza umana, della convivenza concorde, della civiltà dell’amore”. “Amore” è in assoluto la parola più ricorrente nel suo vocabolario. Senza ripercorrere la sua biografia, già nota ai più, accenniamo solo ai due ambiti nei quali Paolo VI vive, testimonia e insegna la verità dell’amore: l’interiorità e l’umiltà, due aspetti sempre attuali. Paradossalmente soprattutto oggi che sembrano tanto inattuali.

 

Interiorità: incontro, ascolto e dialogo. - La testimonianza è radicata nell’interiorità: si nutre di essa e la esprime. In Giovanni Battista Montini l’esterno vela l’interno, ma al contempo lo rivela. La sua formazione, il suo diversificato ministero, il suo magistero attestano una tensione feconda verso l’unità di vita: messaggio, parola, stile e atteggiamenti trovano in lui una forte intrinseca saldatura.

Egli stesso rivela di dovere la sua interiorità, la formazione della sua coscienza umana e cristiana, soprattutto a sua madre Giuditta: donna colta, dolcissima e decisa, dall’animo attento (ad-tentus, proteso in una direzione), dalla profonda apertura contemplativa.

Rileva che nel suo tempo il silenzio si sta perdendo, e lo addebita al fatto che si è ormai troppo esteriorizzati… Non dimentichiamo che circa mezzo secolo è trascorso da quando osservava questo: in una situazione che potrebbe sembrarci tanto più quieta dell’attuale. Nel nostro mondo di progresso tecnologico il ‘rumore’ (non solo acustico) sta disgregando l’interiorità, e si viene condotti in una esteriorizzazione che tende a banalizzare e appiattire tutto - e tutti - nel vivere alla superficie del presente. Da qui il richiamo frequente di papa Montini alla dimensione interiore e al silenzio: non pura assenza di parole, ma ascolto e progressiva unificazione dell’interiorità e della vita. È l’ascolto che rende possibile l’incontro e quindi il dialogo. Non è un caso che proprio del dialogo Paolo VI abbia fatto il cuore del suo programma e la cifra del suo ministero di pontefice, come emerge dalla sua prima enciclica, l’Ecclesiam suam.

Umiltà come cifra dell’amore. - Paolo VI è stato un uomo, un profeta, un santo grazie all’umiltà, che è apertura, ascolto e decentramento, riconoscimento dell’importanza dell’altro – di ogni altro.

L’umiltà è verità su se stessi. Contrasta perciò tutte le forme di orgoglio, di vanagloria, di esibizionismo: significa vivere nella verità ed imparare che la piccolezza fa vera la testimonianza che rimanda a Dio e rifiuta perciò ogni autosufficienza, il maggiore peccato del nostro Occidente scristianizzato (o forse pre-cristiano ancora?). L’umiltà è il segno profetico e sempre attuale della testimonianza di Paolo VI: l’umiltà si nutre e si esprime nella gratitudine, generativa di gioia.

E la gioia è la nota che accompagna il papa di Concesio lungo il suo percorso terreno, modulandosi e accordandosi alle varie fasi della sua vita. Va sfatato il cliché di un Paolo VI triste, chiuso, ‘amletico’. Chi l’ha conosciuto, chi l’ha veduto e ascoltato con attenzione, riconosce che era una persona estremamente serena, fiduciosa, oltre che sensibile e piena di discrezione, gentile e affabile.

Il primo documento del magistero della Chiesa che verte per intero sulla gioia è la sua esortazione Gaudete in Domino del 9 maggio 1975. Per il nuovo Santo la gioia è essenzialmente gratitudine: sgorga da un cuore grato, dal riconoscere il dono che ci è dato e che sempre ci precede. Il Pensiero alla morte è una vera attestazione di riconoscenza e di gratitudine: agli altri, alla vita, a Dio.

La gioia che nasce dalla gratitudine ci ricorda e ci raccorda alla fede cristiana che significa riconoscere e credere all’amore di Dio per noi (cf 1Gv 4,16); la gioia, testimoniata ed insegnata da Paolo VI come segno del Dio vicino, dice l’attesa e la certezza che «alla fine, ... sta l’Amore».



Domenico Paoletti

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