Franco Cardini
Ancora sulla predica agli uccelli
Gli studi e le riflessioni, come gli esami, non finiscono mai. E’ per questo che le ricerche davvero riuscite non sono quelle che “chiudono” i problemi, ma semmai quelle che ne aprono, quindi che ne sollecitano, di nuovi. E’ per questo che le bellissime pagine che l’amico Timothy Verdon ha dedicato a La predica agli uccelli “San Francesco patrono d’Italia”, febbraio 2014, pp. 46-47, presentandola da par suo non solo sul piano artistico-estetico, ma anche su quello scritturale e teologico, mi spinge a chiedermi se non sia il caso di fare un passo avanti.
Non in quel che riguarda i temi e le competenze di Timothy, che in ciò e in molte altre cose è impeccabile e insuperabile; ma su altri aspetti, su altre questioni che sono – e legittimamente, del resto – lontani e lontane dai suoi interessi e nondimeno possono contribuire ad approfondire il senso dell’esperienza di Francesco guardandola anche da una prospettiva che è stata finora, a mio modo di vedere, trascurata: quella delle cosiddette “scienze umane”, a cominciare dall’antropologia culturale e da quel rapporto tra linguistica e “scienza delle mitologie”.
Il mio punto di partenza, in questo ragionamento, è costituito dagli studi del grande Georges Dumézil e dalla persuasione – alla quale io stesso sono, tardivamente giunto – che si debba “verificare in che misura i motivi comuni all’interno della mitologia delle culture variamente appartenenti alla famiglia linguistica indoeuropea siano riconducibili a un aptrimonio comune assai più antico di quanto Dumézil, e con lui molti altri, pensasse”, come lucidamente ha affermato Paolo Galloni (Il mistero degli uccelli iniziatici, in Pulsioni e destini. Per Andrea Fassò, Modena, Anemone Vernalis, 2010, p. 84). Ho in passato sostenuto che la “verosomiglianza” – lasciamo perdere qui la dimensione dell’ipotesi miracolistica, che evocata qui sarebbe un passepartout – dell’episodio di Bevagna-Cannara fosse plausibilmente difendibile alla luce dei progressi conseguiti dalle ricerche degli etologi. Rinnovo qui il mio omaggio a Konrad Lorenz, che continuo ad ammirare e ad amare, ma il problema non è affatto questo: e appiattire quel bell’episodio della vita del povero di Assisi a un episodio allineabile sui modelli dell’oca Martina o dei pesci-corallo mi sembra umiliante e banale.
Non di ciò, dunque, si tratta. Attingendo ad esempi tratti soprattutto da mondi “lontani tra loro” (ed anche, e perciò, anche “estranei”? Questo sarebbe il punto…), quali quello greco, iranico-caucasico (osseta), romano, celtico, germanico, indovedico, uraloaltaico e nordamericano, Dumézil ha comparativisticamente studiato una serie di modelli iniziatico-rituali a proposito dei quale è più volte intervenuto, per confermare o correggere l’assunto dell’amico indoeuropeista, anche Claude Lévi-Strauss. Metendo utilmente a frutto anche rilievi di Walter Burkert e di Leonardo Magini, Galloni ha avuto modo di rilevare il nesso forte e costante, in molte culture – che egli propone collegate tra loro dal nesso della “continuità paleolitica”: il che, noto facinorosamente a mia volta, lo espone al rischio di essere accusato di paradiffusionismo, e Léo Frobenius è notoriamente un auteur maudit – tra uccelli e riti di passaggio, con il problema, a ciò correlato (e fin dalle antichità egizie, del resto) del rapporto tra uccello e anima umana e quindi della valenza sciamanica di quanto al mondo degli uccelli appunto si collega.
D’altronde, è noto che Sigfrido, bagnatosi del sangue del drago Fafner dopo un caratteristico Tierkampf iniziatico, si accorge di comprendere il linguaggio degli uccelli. E torniamo alla colomba dello Spirito Santo e all’uccelletto candido che plana sui suoi fratelli dall’albero posto di fronte all’immagine di Francesco in atto di predicar loro. Chi è, sempre grazie a Dio e per mezzo dello Spirito, l’allievo e chi il maestro, tra il Povero di Assisi e le sirocchie sue uccelli?
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