Franco Cardini
Voglia di mostaccioli
Come passa al cielo un santo? Quali celestiali visioni lo accompagnano, quali sublimi pensieri lo sostengono nel momento della prova? Francesco d’Assisi, a quanto pare, pensò a un dolce che gli piaceva. E chiese a una sua amica romana, madonna Jacopa o Giacomina dei Settesogli (cioè “dei Sette Troni: non “ Sette Soli”, come più comunemente si dice) di portargli “de illa comestione, quam pluries fecit michi, cum fui apud Urbem…Illam autem comestionem vocant Romani mortariolum, que fit de amigdalis et zucaro vel melle et aliis rebus”. Così almeno si legge nella Compilatio Assisiensis, 8, ed. E. Menestò, in Fontes franciscani, edd. E. Menestò, S. Brufani et alii, Assisi 1995, pp. 1477-78. il medesimo episodio è narrato altresì in Speculum perfectionis, 112, 2-3, ed. L. Pellegrini, ibidem, p. 2032. Un grazie a Enrico Menestò per avermi aiutato a rintracciare il passo, che ricordavo solo sommariamente.
La parola latina mortariolum è di etimo incerto: ma è probabile che, come nell’italiano “mortadella” e nel francese “mortier”, indichi un cibo gli ingredienti del quale vanno a lungo pestati e amalgamati nel mortarium, il mortaio (meno probabile che indichi un tipo particolare di biscotto secco che si usava e in certe regioni ancor oggi si usa preparare e consumare nella solennità dedicata ai morti; meno probabile ancora che quei cibi prendessero in qualche modo nome dal fatto che nella sua preparazione entravano le bacche del mirto, o mortella, e il loro sugo). Da mortariolum deriva senza dubbio l’italiano “mostacciolo” usato per molti tipi di dolci, cioè di biscotti secchi che variano però nella loro composizione a seconda delle aree regionali o subregionali: può darsi che la parola abbia anche a che vedere col mosto, e che quindi il mostacciolo possa essere simile, nella sua forma primigenia, a quella che in Puglia si chiama la “cartellata”. Gli ingredienti di quei “mostaccioli” sarebbero miele, zucchero mandorle e altro. Sollecitando un po’ i nostri testi, da parte nostra diremmo che i mostaccioli di madonna Giacomina non dovevano poi esser troppo differenti dai ricciarelli senesi che si preparano ancor oggi.
Ma il punto è un altro: non è “scandaloso” che il santo, in punto di morte, rischiasse un peccato di gola? E non è improbabile che non potesse comunque mandar giù nulla, nelle sue condizioni di quel momento?
Dovette chiederselo anche Bonaventura da Bagnoregio, quando redasse a sua volta quella Legenda maior desinata, almeno nelle intenzioni, a divenire l’unico paradigma agiografico di Francesco. Egli scriveva però nel settimo decennio del Duecento, quando le polemiche su Francesco erano all’acme ma erano passati dall’orizzonte della Chiesa e della Cristianità il rischio e la minaccia del catarismo, questa religione alternativa d’origine manichea che fra XII e XIII secolo, travestita da “cristianesimo delle origini”, aveva in certe regioni quasi del tutto soppiantato la vara fede cristiana facendo trionfare una visione cosmica fondata sulla lotta eterna fra i due Princìpi opposti del Bene e del Male, in una prospettiva che individuava il male nella Materia e quindi il dio malvagio nel Creatore.
Nel 1226, l’anno del Transito di Francesco, il catarismo era ancora attivo. Il Santo lo sapeva bene: il suo Cantico delle creature, oltre che la più bella poesia mai scritta al mondo, è un perfetto manifesto anticataro in quanto inno al Creatore e a tutto il creato, alla materia illuminata dalla Grazia divina. Ed è l’amore per le cose belle e buone donate da Dio che, secondo l’autore della Compilatio Assisiensis, muove il Santo a dare un addio alla vita gustando il sapore delle mandorle e del miele.
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