Don Felice Accrocca
Cinquant’anni fa moriva il grande Totò
Cinquant’anni fa moriva il grande Totò, che in più di un’occasione – in film ora più impegnati ora meno – vestì anche il saio francescano. Mario Monicelli lo giudicò – ed è un giudizio, il suo, che condivido appieno – uno dei massimi attori di tutti i tempi, degno di stare al fianco di personaggi come Charlie Chaplin o Stan Laurel. Sì, Totò fu grande non solo perché attore difficilmente eguagliabile, ma perché riuscì appieno nel programma – da lui reso pubblico nel corso di una straordinaria intervista – di far pensare la gente facendola sorridere, dandole così la possibilità di sdrammatizzare le situazioni anche più dolorose e di trovare la forza per superarle. Era – quella sua capacità di sorridere e far sorridere nelle difficoltà, di trovarvi quasi una forma di beatitudine – una variante, laica certo, ma non chiusa al mistero, della «perfetta letizia» francescana. Una letizia che si trovava a fare i conti non tanto con il rifiuto di quelli che avrebbero dovuto essere amici e seguaci, ma con una fame che si tagliava con il coltello e che richiedeva, oltre che una pazienza a prova di bomba (quella virtù che Giuseppe Marotta, con espressione felice, definì “l’oro di Napoli”), anche un esercizio geniale dell’italianissima arte di arrangiarsi. Nel napoletano Totò, come già nell’umbro Francesco, era il genio italiano a esplodere, irradiando tutt’intorno il segreto di una vita semplice, una mirabile arte poetica, una straordinaria voglia di vivere: in tal modo «’a livella» può diventare una variante nel noto verso del Cantico di frate sole, nel quale Francesco avverte che da «sora nostra Morte corporale» «nullu homo vivente po’ skappare». E pure Totò, in qualche modo, finisce per additarci una via che porta a Dio…
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