Grado Giovanni Merlo
Leggere il Testamento di frate Francesco (7)
Suscita una iniziale sorpresa che frate Francesco, dopo aver ricordato di condividere la condizione dei «chierici» della sua fraternità e di rispettarne i doveri rituali, ricordi di aver sempre lavorato e di voler ancora lavorare, nonostante – aggiungiamo noi – le malattie che avevano assai indebolito il suo corpo: «E io con le mie mani lavoravo e voglio lavorare; e fermamente voglio che tutti gli altri fratelli lavorino di un lavoretto che sia onesto».
Lo stupore viene meno quando si pensi che questa ferma intenzione viene dopo la dichiarazione «Ed eravamo individui di nessun conto e sottomessi a tutti». La condivisione della condizione degli ultimi della società implica di non avere alcuna sicurezza materiale e di cercare i mezzi della propria sussistenza con la fatica delle proprie mani: attraverso un’attività che frate Francesco definisce laboritium, ovvero attraverso lavoretti di nessun rilievo sociale ed economico, che comunque non allontanino dalla onestà, dalla coerenza evangelica, dal «vivere secondo il modello del santo vangelo». La prospettiva è ribadita dalle parole che seguono nel Testamento: «Coloro che non sanno lavorare imparino, non per la cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma per dare l’esempio e per cacciare l’oziosità». I fratelli vengono impegnati a rispettare l’elemento caratteristico della vita degli ultimi, coloro che danno senza ricevere se non lo stretto indispensabile per la sopravvivenza, coloro che talora rischiano pure di non ricevere il poco loro spettante: «E quando non ci sarà data la ricompensa del lavoro, ricorriamo alla mensa del Signore, chiedendo l’elemosina di porta in porta».
Ecco come i fratelli si devono mettere, sino in fondo, nella condizione degli ultimi, coloro che sono costretti a ricorrere all’elemosina, splendidamente definita la mensa del Signore. Bussare di porta in porta per chiedere l’elemosina è un atto di totale subordinazione alla volontà degli altri, ai quali perciò si deve rivolgere il saluto «Il Signore ti dia pace», quasi si trattasse dell’unica offerta possibile a chi non ha alcunché e niente pretende se non di rappresentare un segno insignificante della presenza divina.
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